438 Days recensione del film di Jesper Ganslandt con Gustaf Skarsgård, Matias Varela, Faysal Ahmed, Nat Ramabulana e Josefin Neldén
438 Days è la vera storia dei giornalisti svedesi Martin Schibbye e Johan Persson che hanno messo a repentaglio la propria stessa vita per attraversare il confine tra Somalia ed Etiopia e raccontare la verità riguardo alla corsa al petrolio e gli effetti devastanti nella regione dell’Ogaden. Cinque giorni dopo, per i due reporter si aprono le porte dell’inferno e la storia si sposta in un’altra direzione, quella della sopravvivenza e della battaglia per la verità.
Dalla ricerca della verità riguardo ad una questione di rilevanza internazionale, Gustaf Skarsgård e Matias Varela si trovano a dover fare i conti con una lotta per la sopravvivenza dove l’amicizia diventa l’unica arma a disposizione. Nel film di Jesper Ganslandt si intrecciano alla perfezione dimensione generale e orizzonte particolare, andando a scoprire gli intrecci e gli interessi di entità immateriali sulla pelle di chi effettivamente li vive.
Penetrare la realtà può essere un esercizio ai limiti dell’insostenibilità prima di arrivare a confezionare un reportage. In un certo senso, basandosi sull’omonimo libro scritto dai veri giornalisti, 438 Days si configura come una sorta di enorme backstage dell’informazione che si sporca le mani per mettere a nudo gli ingranaggi del nostro mondo ed è un’operazione estremamente attuale, che si inserisce nel solco di un rilancio e un potenziamento del giornalismo attraverso il cinema (come accaduto anche in Another Day of Life di Raúl de la Fuente e Damian Nenow).
Conoscere chi racconta e come è arrivato a farlo sul grande schermo è un meccanismo estremamente interessante per riuscire nuovamente a trasmettere storie e non soltanto favole, portando in questo caso gli spettatori a giocare a pallone nel bel mezzo dell’Africa in un campo delimitato dai kalashnikov e veicolando un contenuto che sarebbe andato probabilmente perso nei meandri della rete.