I figli del mare recensione del film d’animazione dello Studio 4°C diretto da Ayumu Watanabe, tratto dal manga di Daisuke Igarashi
Una delle tecniche cinematografiche che più permette le sperimentazioni è l’animazione, attraverso la quale si possono creare, distruggere o plasmare mondi. Una grande prova per tale affermazione si può trovare in I figli del mare, film diretto da Ayumu Watanabe e tratto dal manga di Daisuke Igarashi, distribuito da Nexo Digital.
Al centro della storia c’è la giovane Ruka, liceale scontrosa e dall’animo ribelle che dopo essere stata esclusa dalle attività sportive scolastiche conosce prima Umi e poi il fratello Sora, due ragazzi unici in quanto cresciuti in mare ed allevati dai dugonghi. Dopo i primi minuti in cui la storia sembra aver preso una certa piega e, per quanto fuori dal comune, i personaggi sembrano delineati Watanabe decide di correre un rischio non da tutti; il regista giapponese infatti dimostra di non essere minimamente interessato ad una trama lineare né a seguire strade narrative già battute da altri.
Il film parte da una situazione piccola e da un’ambientazione comune a molti film animati giapponesi per poi piano piano togliersi la maschera e arrivare a svelare la sua anima complessa e surreale, in cui la natura e tutto ciò che circonda l’essere umano è al centro della narrazione: mare, cielo e universo sono tutti elementi bisognosi di connettersi definitivamente e dovranno essere i nostri tre protagonisti a compiere quest’unione.
Grazie alla grande prova registica di Watanabe lo spettatore si ritrova immerso in un’opera fuori dal comune che volutamente lo turba e lo frastorna grazie a delle sequenze apparentemente sconnesse ma che portano con sé una profonda riflessione sul ruolo dell’essere umano nel mondo e sulla decentralizzazione di quest’ultimo come entità più importante della Terra a favore del mare, assoluto protagonista del film e culla di tutto il nostro pianeta. Watanabe riesce nel difficile compito (al giorno d’oggi) di creare un senso di genuina sorpresa in chi guarda la sua opera, ma come riesce in quest’impresa?
L’elemento che aiuta a rendere molto interessante il film è l’elevatissima qualità grafica che le immagini possiedono, i disegni e le animazioni lasciano lo spettatore a bocca aperta per la capacità di trasmettere le stesse sensazioni che prova la giovane Ruko. Soprattutto sott’acqua ogni elemento sembra vivo e anche le più piccole bolle nel mare sono realizzate con grande cura. Il fondale marino è, non a caso, un ambiente fondamentale del film: esso conserva fascino e mistero e porta con sé la grande metafora della vita, misteriosa e affascinante proprio come Umi e Sora, i due veri figli del mare. Esattamente come i pesci che per comunicare non hanno bisogno di parole, Watanabe nel film riesce a far parlare le immagini incantando lo spettatore e creando dei veri e propri quadri pittorici.
Il confine tra profondità e sterile virtuosismo è molto sottile ma Watanabe con I figli del mare gira un’opera che nel bene o nel male è da non perdere, un’opera destinata a dividere e a far discutere ma che molto difficilmente verrà dimenticata dagli spettatori pronti ad affrontarla.
Andrea P.