Il richiamo della foresta recensione film di Chris Sanders con Harrison Ford, Omar Sy, Karen Gillan, Dan Stevens e Bradley Whitford
Tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore statunitense Jack London, Il richiamo della foresta (The Call of the Wild) diretto da Chris Sanders, è l’ultimo dei numerosi adattamenti cinematografici dell’opera, tra i quali spicca quello diretto da William A. Wellman nel 1935 con Clark Gable e Loretta Young.
Chris Sanders gira il suo primo film live action dopo essere stato regista di Lilo & Stitch, Dragon Trainer (co-diretti con Dean DeBlois) e I Croods. È stato inoltre head storyboard per i Walt Disney Animation Studios e character designer per La Bella e la Bestia, Aladdin, Il Re Leone e Mulan. La distribuzione internazionale del film, originariamente prevista per il 25 dicembre 2019, è stata rimandata al 20 febbraio 2020 a causa dell’acquisizione di 20th Century Fox da parte di Disney.
Impossibile non conoscere il romanzo di Jack London: Buck, un cane addomesticato che vive lussuosamente a Santa Clara, in California, viene rapito e venduto come cane da slitta in Alaska. Dopo varie disavventure, incontra John Thornton, uomo solo e sofferente a causa della morte del figlio gravemente malato. I due partiranno insieme alla scoperta della selvaggia natura incontaminata del Nord America e del proprio posto nel mondo.
A metà tra Balto e 8 amici da salvare, almeno nelle intenzioni, e tra l’animazione in CGI e il live action, Il richiamo della foresta si presenta come un sottoprodotto disneyano d’avventura incapace di convincere davvero.
La compenetrazione tra recitazione e animazione 3D, sulla carta potenzialmente molto interessante, appare fin dai primi minuti della pellicola una grande criticità. Buck è animato egregiamente s’intende, così come tutti gli altri animali digitali, ma il comparto d’animazione pecca di presunzione e il tentativo di iperrealismo si infrange rovinosamente quando lo si accosta alla realtà stessa. La magia si dissolve, un po’ come le ali di Icaro in prossimità del sole. Gli animali infatti, caricati di espressioni facciali emotive tipicamente umane, perdono la loro natura originaria diventando fantocci posticci; creature digitali dagli occhi vitrei, sebbene sapientemente modellate.
Deludente anche il cast artistico. Omar Sy (Quasi amici) e Harrison Ford escono con le ossa rotte da questo “esperimento”, un film che ruota tutt’intorno alle animazioni e relega attori di un certo calibro al ruolo di figurazioni. Entrambi, in momenti diversi del film, tentano timidamente di portare avanti la narrazione attraverso dialoghi privi di spessore; soliloqui che si perdono a mezz’aria e dai quali traspare tutta la difficoltà di dover recitare a lungo e soli di fronte ad un green screen.
Il personaggio di Buck attinge un po’ da Beethoven, un po’ da Lessie, un po’ dai supereroi Marvel, tant’è che lo si vede compiere azioni straordinarie al limite del surreale. La caratterizzazione scelta vuole divertire, suscitare fiducia e infondere coraggio. Vuole dipingere un eroe senza macchia capace di vincere ogni limite e avversità; una guida sia per i suoi simili che per gli esseri umani.
Tale sforzo lo si apprezza volentieri, soprattutto se si pensa che il film è destinato prevalentemente ad un pubblico di bambini che di certo saprà attingere dalla bontà e dalla saggezza del protagonista.
Lo spettatore non più adolescente invece, emancipato dal concetto manicheo del bene e del male, del bello e del brutto, potrebbe trovare la pellicola eccessivamente semplicistica e priva di scopo, per una grande storia che forse non aveva bisogno di essere così raccontata.