The Boys in the Band recensione film di Joe Mantello con Zachary Quinto, Jim Parsons, Matt Bomer, Andrew Rannells, Charlie Carver, Robin de Jesus, Brian Hutchinson e Michael Benjamin Washington
The Boys in the Band è l’adattamento dell’opera teatrale di Mart Crowley del 1968 e una sorta di remake revisionista della versione cinematografica diretta da Friedkin nel 1970 Festa per il compleanno del caro amico Harold.
Nato dall’accordo di Netflix con Ryan Murphy (American Horror Story, Hollywood, Ratched) questo remake è diretto da Joe Mantello che, già nel 2018, aveva messo in scena la versione teatrale a Broadway con i medesimi attori.
La storia è semplice. Un gruppo di amici gay si riunisce per il compleanno di Harold (Zachary Quinto) e con l’alcol che scorre a fiumi molti segreti iniziano ad emergere. La situazione si complica quando Alan (Brian Hutchinson), compagno di stanza del college di Michael (Jim Parsons), arriva improvvisamente alla festa. Lui non sa che il suo amico è omosessuale e mostra sin dal principio atteggiamenti omofobici. L’atmosfera divertita e allegra lascia il posto ad una ostilità densa e questa visita inaspettata causa l’avvio di un gioco che non avrebbe mai dovuto essere giocato.
Vengono così a galla conflitti personali e acrimonie tra ogni membro del gruppo, assurde manifestazioni di amore e mancanze di autostima che emergono via via durante la serata attraverso conversazioni sulla sessualità, sull’accettarsi, sulla monogamia e sulla religione.
Il punto di forza di questa versione sono gli attori. Parsons è un perfetto direttore d’orchestra, per il pubblico scinderlo da Sheldon Cooper non è un’impresa facile, ma grazie ad una performance di feroce capacità attoriale, l’attore riesce nella sua missione e offusca il personaggio di The Big Bang Theory.
Ma è Zachary Quinto a rubare la scena. Il suo arrivo alla festa (nel ruolo del cinico, aristocratico, sofferto e distante Harold) rappresenta una doccia fredda per il gruppo. La sua presenza è imponente e il suo rapporto di amore/odio con Parsons fa scintille. Che siano rimproveri, sguardi seducenti o commenti ironici, quest’uomo obbliga lo spettatore a prestargli attenzione perché quando parla tutti tacciono.
Insieme a loro ci sono: il promiscuo Larry (Andrew Rannells), il fedele Hank (Tuc Watkins), l’intellettuale Donald (Matt Bomer), l’esuberante Emory (Robin de Jesus) e il sensibile Bernard (Michael Benjamin Washington).
Questo brillante gruppo sublima e incarna ogni stato d’animo immaginabile in solo due ore, si passa dalla commedia agrodolce al dramma catartico. I dialoghi sono ben fatti e catturano l’attenzione anche grazie alla riuscita, corale interpretazione recitativa.
Il ruolo di Parsons è fondamentale poiché crea un nesso tra tutti i personaggi, quelli che si sono accettati e quelli che si disprezzano. Hanno tutti un punto in comune: cercare di amare ed essere amati ed è quel rifiuto che sperimentano sulla pelle che impedisce loro di provare amore.
Quell’oppressione è latente in ogni scena del film e sfrutta la sua origine teatrale per trasmettere la sensazione di come un lussuoso attico newyorkese, che potrebbe essere un Eden liberatorio, finisca alla fine per essere una gabbia d’oro.
The Boys in the Band è un riflesso fedele dello spirito originale, nonché un ritratto accurato della vita gay alla fine degli anni ’60. Forse il problema è rappresentato dalla sua eccessiva durata e dal fatto che alcuni personaggi rimangono abbozzati senza essere adeguatamente sviluppati. Mentre compaiono i titoli di coda, infatti, si ha la strana sensazione: che molti fronti rimangano aperti. Ma vale la pena vederlo, e non soltanto per lo straordinario cast.