We Are Who We Are recensione della miniserie TV di Luca Guadagnino con Chloë Sevigny, Jack Dylan Grazer, Alice Braga e Jordan Kristine Seamòn
Da poco più che un decennio, Sky ha saputo valorizzare i talenti registici italiani per le sue serie Original. Dopo Stefano Sollima – che con Romanzo Criminale (2008-2010), Gomorra (2014 – in onda) e Zero Zero Zero (2019 – in onda) ha saputo dare concretezza al progetto; e Paolo Sorrentino con The Young Pope (2016) e The New Pope (2019 – in onda); è il turno di Luca Guadagnino con We Are Who We Are (2020).
Co-prodotta da HBO, la miniserie in 8 puntate scritta e sceneggiata (anche) da Paolo Giordano e Francesca Manieri, segna il ritorno del regista siciliano sul sentiero narrativo e tematico di Chiamami col tuo nome (2017) dopo la parentesi Suspiria (2018) e del corto The Staggering Girl (2019); confermando così la particolare attenzione all’aspetto emozionale nelle sue opere – e dell’insita gioia del regista palermitano di lavorare in Italia.
C’è infatti un particolare momento in We Are Who We Are, che riesce a cogliere bene l’essenza della ratio narrativa dell’opera – e in particolare della ragion d’essere dei suoi agenti scenici; caratterizzandosi della celebre Io sono colui che ha un angoscioso desiderio di Walt Whitman:
“I am he that aches with amorous love; – Io sono colui che ha un angoscioso desiderio d’amore;
Does the earth gravitate? – Gravita la terra?
Does not all matter, aching, attract – La materia non attira, bramandola,
all matter? – tutta la materia?
So the body of me to all – Così il mio corpo verso tutti quelli che
I meet or know – incontro o conosco.
Che in qualche modo sembra quasi la rappresentazione testuale di molti dei protagonisti del cinema di Guadagnino. Dall’omonima protagonista di Melissa P. (2005) della Valverde; all’Elio Perlman di Chalamet nel sopracitato Chiamami col tuo nome; passando per l’Harry Hawkes di Fiennes in A Bigger Splash (2015) – per citarne alcuni. Non fanno eccezione i giovani – e alla ricerca di sé stessi e di un posto nel mondo – Fraser e Caitlin di We Are Who We Are in una componente amorosa che non solo permea lo sviluppo del racconto, ma perfino il loro animo – nella ricerca di un proprio posto nel mondo.
Nel cast della miniserie in onda su Sky Atlantic dal 9 ottobre 2020, figurano Jack Dylan Grazer, Jordan Kristine Seamòn, Chloe Sevigny e Alice Braga; e ancora Francesca Scorsese, Faith Alabi, Kid Cudi, Spence Moore II e Benjamin L. Taylor II.
We Are Who We Are: sinossi
Un americano poco più che ventenne, Fraser Wilson (Jack Dylan Grazer), viene da New York e s’è appena trasferito alla Caserma Pialati – base delle Forze Armate Americane a Chioggia; intelligente e sensibile ma anche piuttosto inquieto ed eccentrico, Fraser è qui assieme alla madre Sarah (Chloe Sevigny) – appena promossa Comandante della Caserma – e la compagna di lei, Maggie Teixeira (Alice Braga). L’ambientamento non è facile, specie per le regole militari che vanno strette a Fraser; ma al contempo la base è popolata quasi interamente da militari americani, per cui è tutto più semplice.
O così sembrerebbe, perché fatta la conoscenza di Britney Orton (Francesca Scorsese) e del suo gruppo d’amici Fraser resta folgorato da Caitlin Poythress (Jordan Kristine Seamòn). Un’afroamericana di origini nigeriane, che a differenza sua, è trapiantata a Chioggia da tutta una vita; parla fluentemente l’italiano ed è ben accolta da tutta la comunità. Tra prime volte e nuovi inizi, italiano maccheronico ed accenni di americano, sotto il cielo di Chioggia l’amicizia tra Fraser e Caitlin – così diversi e così simili – sarà destinata a cambiare per sempre le vite d’entrambi.
Niente occhiali da sole
Camera fissa in primo e primissimo piano e felpa arancio; unghia gialle e blu; movimenti lenti che inquadrano il giocare con una catenina e con i boccoli biondi; poi un broncio e uno sguardo tra il sognante e l’insofferente. La camera si allontana e allarga la scena. Il vestiario è vivace: pantaloni maculati, snickers rosse a collo basso – e tanta insofferenza verso l’autorità materna. In una semi-soggettiva delicata e fluida, Guadagnino ci fa sbarcare a Venezia con We Are Who We Are; presentandoci così il contesto familiare dei Wilson del Fraser di Grazer, la Sarah della Sevigny e la Maggie della Braga nel mondo straordinario.
Una presentazione che vive di un appena accennato background, e tanta intenzione narrativa vestita di occhiali da sole e giacche dei Rolling Stones. Così facendo Guadagnino ci accompagna per mano nell’arena scenica della Caserma Maurizio Pialati di Chioggia – dipanando così una narrazione dal respiro scenico lento, graduato, che si caratterizza, sin dalle prime battute di racconto, della cura del dettaglio e del momento.
Tra carezze, dita in bocca, e dita che affondano su di una torta a stelle e strisce l’arrivo dei Wilson in Italia risulta funzionale, soprattutto, per diradare la nebbia sulle dinamiche familiari. Dipanando così mini-conflitti con cui dar colore agli agenti scenici e a far emergere la dimensione caratteriale del Fraser di Grazer – in un’ambiguità d’insofferenza al trasferimento mista ad affetto, curiosità e cura attraverso una recitazione spigolosa e vibrante.
Catapultandolo così nel mondo straordinario, lo sviluppo del racconto permette a Guadagnino di inspessire i contorni del suo ribelle protagonista in una crescita graduale della sua dimensione narrativa, funzionale sia per approfondire le regole che le componenti dell’arena scenica. L’insofferenza ribelle del Fraser di Grazer – acuita dal turning point alla base del racconto – diventa il motore della narrazione; girovagando; fotografando gente; ammirando corpi nudi di militari – ma soprattutto mettendo carne al fuoco con cui andare ad arricchire la componente relazionale che andrà poi a corroborare l’accezione da coming-of-age di We Are Who We Are.
We Are Who We Are: affreschi caratteriali tra prime volte e nuovi inizi
L’ingresso scenico della Caitlin della Seamon permette infatti, a Guadagnino, di caricare di significato l’incongruenza che dà colore al suo intrigante protagonista maschile; l’insofferenza che si traduce in affetto, trova conferme nelle capacità relazionali. Fraser è infatti tanto vivace e spaccone all’autorità, quanto introverso con i suoi coetanei e problematico con la madre Sarah della Sevigny. L’eccezione è data dalla Maggie della Braga, in una sublimazione di figura paterna e amore materno – fiducia, tenerezza e un “deporre le armi” verso le ostilità esterne.
Un affresco di caratterizzazioni che va a minare – tra amicizie superficiali, e soprannomi poco lusinghieri – la dinamica relazionale, cuore del racconto de We Are Who We Are che si rivela, in tal senso, tutt’altro che lineare e immediata, piuttosto complessa e dall’incedere graduato.
La potenziale canonicità del coming-of-age seriale, trova un elemento di rottura con lo sviluppo episodico. Guadagnino gioca infatti con i punti di vista scenici, ribaltando così la polarità del racconto; ricominciando a raccontare dal principio con cui arricchire la dimensione caratteriale dei suoi protagonisti. In un incedere di prime volte, balli e scoperte di sé, il regista de Io sono l’amore (2009) opera uno switch narrativo importante. Essenziale nell’economia del racconto, perché permette di amplificare le sfumature della sua materia scenica – nonché la portata empatica della sua narrazione e della sua stessa struttura che da arco narrativo singolo diventa doppio/bipolare.
A cornice di una gestione della materia narrativa che indica, e non poco, un’evidente evoluzione nel Guadagnino autore; non sorprende, perché non è di certo una novità, la cura registica della sua prima prova seriale del cineasta siciliano. Una regia fluida, dinamica e vivace, caratterizzata da un uso efficace di piani sequenza e primi piani dal basso verso l’alto che denotano – come se ce ne fosse bisogno – una gestione metodica dei momenti, del particolare; delle atmosfere e dei sentimenti il cui tono, tra un numero di telefono cancellato con la saliva e del sangue lungo la gamba, oscilla tra il respiro estetico e l’immersività de Chiamami col tuo nome, e lo stile crudo e spontaneo del cinema di Abdellatif Kechiche.
Right Here, Right Now: La prima volta “seriale” di Guadagnino
Nella cura dei dettagli e delle emozioni della sua mole narrativa, sono le differenze – opposte ma complementari – tra Fraser e Caitlin, la chiave di volta del cuore della miniserie di Guadagnino. Tra chi vive da outsider della società e chi ne è pienamente integrata; chi sfida le autorità e chi ne è parte integrante. Piccole ma sostanziali differenze che il cineasta palermitano, cristallizza e compenetra in una dinamica relazionale di due anime – diverse ma vicine – alla ricerca del proprio posto nel mondo e che trovano nell’uno, l’altro. Declinando così una delicata (ma inflazionata) riflessione sull’importanza della famiglia e dei legami sociali; di come, a volte, siano più saldi quelli che scegliamo di creare, piuttosto che quelli biologici – che ci vengono imposti dalla vita.
We Are Who We Are è esattamente questo. Siamo qui e ora, siamo ciò che siamo. Un coming-of-age di due esseri imperfetti, complessi e dall’angoscioso desiderio d’amore, che scendono ogni giorno a patti con il proprio contesto; vestendosi di spavalderia tra un look accattivante e metodi bruschi – con cui accettare sé stessi, affrontare le paure di ogni giorno e realizzare i propri sogni – o quantomeno provarci.
Ben lontano dal manierismo registico-narrativo di Sorrentino e del Giovane e del Nuovo Papa, Guadagnino realizza invece un solido racconto, pragmatico e delicato. Un piccolo gioiello (mini)seriale che è piena summa di una poetica ormai consolidata che vive d’estetismo delicato, cura dei corpi e degli ambienti e della convivialità. L’ennesima conferma del talento registico e autoriale di un cineasta che vive di una reputazione contrastante. Tanto valorizzato Oltreoceano, quanto ostracizzato dall’industria della sua terra d’appartenenza – come dimostrato dall’esclusione dalla cinquina della miglior regia ai David 2020.