His House recensione film di Remi Weekes con Sope Dirisu, Wunmi Mosaku, Matt Smith, Emily Taaffe, Malaika Wakoli-Abigaba e Javier Botet
I tuoi fantasmi ti seguono, non vanno via, loro vivono con te.
Quando li ho fatti entrare sono riuscito ad accettarmi.
(His House)
Il tema dell’immigrazione, nell’ultimo decennio, è stato oggetto di accese discussioni, in cui la politica ha in qualche modo fomentato una spaccatura, a scopo propagandistico, di pensiero tra la popolazione. Ci dimentichiamo, a volte, che queste persone in primis sono esseri umani che scappano da qualcosa d’insostenibile. Scappano da guerre e guerriglie interne, dalla fame e dalla povertà e cercano rifugio in paesi civili dove sperano di ricostruirsi una vita dignitosa senza dover vivere nella costante paura. Ci dimentichiamo, a volte, come questi esseri umani giungono in Europa mossi dalla disperazione e a rischio della propria vita, perché in fondo meglio morire cercando di raggiungere un luogo migliore, piuttosto che restare e accettare un’esistenza priva di speranza. E a fronte di queste tematiche che viene costruito l’horror di produzione inglese His House.
Diretto e scritto dall’esordiente Remi Weekes, His House è basato su un soggetto di Felicity Evans e Toby Venables ed è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival 2020 prima di essere distribuito in streaming su Netflix.
Una coppia di sposi (interpretati da Wunmi Mosaku e Sope Dirisu) fugge dal Sudan del Sud insieme ad una bambina per ricominciare una vita più dignitosa in Inghilterra.
Durante la traversata all’interno di un gommone affollato di persone e con il mare in tempesta succede l’inevitabile: qualcuno cade in acqua e perde la vita, compresa la bambina che li accompagna. I due coniugi ricevono soccorsi e, successivamente, vengono portati in un centro di assistenza inglese dove, dopo diversi controlli ed un colloquio, vengono rilasciati nelle mani degli assistenti sociali.
Mark (interpretato da Matt Smith), uno degli assistenti sociali, li attende presso la loro nuova dimora: una casa tutta per loro composta da due piani. La casa non è in ottime condizioni, così come il quartiere che pare destinato proprio agli immigrati, ma la voglia d’integrarsi per evitare di tornare nel Sudan è troppo importante.
La casa, tuttavia, nasconde qualcosa di oscuro: i due coniugi cominciano a sentire le pareti sussurrare, ad avere visioni ed incubi, qualcosa nel profondo dell’anima li tormenta e questa inquietudine si riversa all’interno dell’edificio, facendogli rivivere il trauma della fuga, il parziale naufragio e la perdita della bambina lasciata morire per una vita migliore.
His House non è un horror canonico: il terrore si mischia al dramma di una vita passata nella paura e si amalgama perfettamente al folklore africano. Un horror che ha diverse sfumature, da quelle politiche passando per le sociali, e questo aspetto lo rende interessante e unico nel suo genere. Gli antagonisti principali sono il rimorso e la disperazione, una lotta continua tra la voglia estrema d’integrarsi a qualsiasi condizione per paura di essere estradati e l’insistenza di restare fedeli alle proprie radici, per poi venire a patti con la realtà dei fatti, cioè che bisogna fare i conti con la propria coscienza.
His House non presenta particolari elementi di terrore scontato (e probabilmente superfluo), ma si basa su una leggera suspense, su visioni grottesche e caratteristiche della cultura africana, sull’inquietudine psicologica e infine tocca il cuore con emozioni forti che lasciano uno spunto di riflessione allo spettatore su una realtà, quella degli immigrati, che può essere conosciuta, ma che in realtà non è nemmeno minimamente immaginabile. Un cast eccelso supporta il lungometraggio, le interpretazioni di Wunmi Mosaku e Sope Dirisu fanno immergere lo spettatore nella loro storia e in quegli incubi che diventano palpabili, tanto da potercisi quasi immedesimare, anche nella loro più cruda sofferenza.
A livello tecnico His House presenta un buon comparto di effetti speciali e makeup che supportano la messa in scena delle visioni e dello stato d’inquietudine dei protagonisti con un efficace coinvolgimento dello spettatore; per il resto Remi Weekes evita l’ausilio di atmosfere cupe e grottesche per la costruzione della tensione.
His House dimostra di essere un prodotto vincente, non ha le pretese d’imporsi come un horror spaventevole e canonico, ma piuttosto riflessivo e psicologico, il cui fine ultimo non è quello di terrorizzare lo spettatore, bensì quello di fargli conoscere una realtà diversa, con le sue leggende e i suoi drammi più profondi, perché in fondo l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa.