Breeder recensione film di Jens Dahl con Sara Hjort Ditlevsen, Anders Heinrichsen, Morten Holst, Signe Egholm Olsen e Eeva Putro al Torino Film Festival 38
L’immortalità e l’eterna giovinezza come bisogno primario. Breeder pone interessanti domande su quanto lontano potrebbe spingersi la ricerca. Fino a che punto i limiti etici della scienza sono in contrasto con una possibile scoperta benefica per l’umanità?
Isabel Ruben (Signe Egholm Olsen) è una “veterinaria” non molto sana di mente che ha scoperto un metodo per bloccare il processo di invecchiamento. Nonostante sia nella sua fase sperimentale, questo elisir è già agognato da tante persone ansiose di poter scambiare le loro fortune con anni di vita. Per portare avanti la ricerca sulle cellule staminali, però, la Ruben conduce esperimenti raccapriccianti utilizzando giovani donne, vittime tenute prigioniere in un laboratorio sotterraneo.
Mia (Sara Hjort Ditlevsen) inizia ad indagare sul comportamento inspiegabile del marito Thomas (Anders Heinrichsen), partner finanziario della dottoressa, scoprendo che ciò che, a prima vista, credeva essere un’infedeltà, sia in realtà qualcosa di più agghiacciante e, senza dubbio, pericoloso.
Il danese Jens Dahl racconta la storia dal punto di vista del testimone oculare, quindi seguiamo la storia attraverso le scoperte di Mia. Ben presto l’indagine la porta a scoprire che suo marito è coinvolto in un progetto per prolungare la vita attraverso una serie di torture. Essendo un horror scientifico, Breeder non mostra immediatamente tutte le sue carte. Il regista cerca di rallentare il ritmo per raccontare ciò che in nome della scienza si può nascondere, creando uno scenario spaventoso e doloroso.
All’inizio la telecamera mostra primi piani nitidi e puliti nel tentativo di ostentare una sorta di illusoria prosperità. Man mano che la storia avanza, ci addentriamo nel profondo della clinica e su ciò che nasconde la struttura segreta. Un carcere dove le donne vengono usate nello stesso modo in cui vengono gestite le cavie da laboratorio; l’analogia è terrificante, di una crudezza a tratti insopportabile.
Molte delle scene forse fanno riferimento agli esperimenti nei campi di concentramento e sull’abuso fisico fino ad un estremo doloroso e spietato. Più la trama inizia a svelare tutti i suoi strati in maggior misura pensiamo: chi sarebbe disposto a pagare una formula per rimanere giovani a costo della vita di una persona?
Il film ha un approccio argomentativo non distante dal primo Cronenberg – quello della manipolazione genetica – e ricorda le scene di tortura in contesti sporchi e malsani già visti in Hostel o Saw.
Dahl sa come ingraziarsi gli amanti del genere: da splatter al rape and revenge, realizzando un film che potremmo definire “brutale”. Con il passare dei minuti, soprattutto nella seconda metà, ci chiediamo se le cose peggioreranno. Accede proprio così, dinanzi allo schermo scorrono tutta una serie di atrocità alle quali stentiamo a credere.
Le dinamiche moralmente discutibili già viste e riviste e l’abbondanza di cliché contribuiscono ad indebolire la sceneggiatura, che comunque risulta di buona resa.
Breeder esplora l’argomento distopico del controllo del corpo da parte delle sfere di potere o per mancanza di diritti delle supposte cavie o per perseguire un bene superiore con ideali contorti. Questa ipotesi ha da sempre generato angoscia collettiva. L’interrogativo più spaventoso è: potrebbe mai succedere in futuro qualcosa di simile?