Yellowstone 3 recensione della terza stagione della serie TV ideata da Taylor Sheridan con Kevin Costner, Kelly Reilly, Luke Grimes, Wes Bentley e Cole Hauser
Riconoscenza, fedeltà, amore, famiglia. Riparte da qui Yellowstone (2018-2020), dal volto segnato di Kevin Costner e dalla concreta sensazione che se si vuol ricercare la carica valoriale del west fordiano nel cinema contemporaneo, questa poggia tutta sulle spalle della creatura seriale di Taylor Sheridan. Autentico cinema prestato alla televisione. Apogeo di una carriera che dalla trilogia della frontiera di Sicario (2015); Hell or High Water (2016); I segreti di Wind River (2017), sino alla costola narrativa Soldado (2018), attraverso cui Sheridan racconta dell’America e dei suoi uomini per mezzo di topos di generi in disuso.
La visione autoriale di Sheridan arriva infatti in un momento particolarmente vivace per il cinema americano. Hollywood sta riscoprendo il piacere della sperimentazione narrativa, quasi new-hollywoodiana, tra la rilettura del crime di S.Craig Zahler (Cell Block 99, Dragged Across Concrete); dell’horror sociale di Jordan Peele (Noi); quello onirico di Robert Eggers (The VVitch, The Lighthouse); nonché degli high-concept sci-fi di Leigh Whannell (Upgrade, The Invisible Man).
Sheridan funge un po’ da apripista per i sopracitati neo-autori. A partire dalla rilettura del genere crime tra Sicario e Soldado di una Kate (Emily Blunt) agente scenico passivo in balia d’eventi dall’inerzia simil-western; all’America post-crisi economica di Hell or High Water; sino alla connotazione razziale del racconto del neo-western innevato de I segreti di Wind River.
In un simile contesto narrativo va ad emergere la serialità di Yellowstone, nella rilettura della dicotomia cowboy/indiani attualizzandola secondo le estetiche contemporanee. Dicotomia che se nel cinema di Ford prendeva piede per appartenenze territoriali, nella seconda decade del nuovo Millennio – e nel pieno del neo-western urbano sheridianiano – la matrice non può che essere di tipo economico.
Nel cast della terza stagione di Yellowstone – in onda su Sky Atlantic dal 29 gennaio 2021 con un doppio episodio – figurano Kevin Costner, Kelly Reilly, Luke Grimes, Wes Bentley, Cole Hauser; e ancora Kelsey Asbille, Brecken Merrill, Jefferson White, Forrie J. Smith, Gil Birmingham e Josh Halloway.
Yellowstone 3: sinossi
All’indomani del ritrovamento del nipote Tate (Brecken Merrill) ancora ammaccato e traumatizzato per i Dutton tocca pagare le conseguenze delle azioni. Il patriarca John (Kevin Costner) decide così di serrare i ranghi, evitare rischi inutili, e rinsaldare i legami della propria famiglia nel dorato ranch di sua appartenenza. Rip (Cole Hauser) diventa a pieno titolo il co-gestore operativo del ranch e sta finalmente vivendo un sogno d’amore country-western con Beth (Kelly Reilly); Jamie (Wes Bentley) torna ad avere il ruolo legale che gli compete acquisendo consapevolezza del pesante cognome che porta; infine Kayce (Luke Grimes), ancora più capobranco con Monica (Kelsey Asbille) e il piccolo Tate, pronto a fare la cosa giusta per il bene della famiglia.
La serenità nella vallata non durerà però a lungo. Roarke Carter (Josh Halloway) infatti, tra una pescata sul fiume e un flirt con Beth, è un avido gestore di fondi fermamente intenzionato ad espropriare la terra dei Dutton per il bene del progresso. Sarà l’inizio di una nuova serie di alleanze, omicidi irrisolti e intrighi politici; tutto per permettere ai Dutton di mantenere il fermo controllo sulle terre di Yellowstone.
Yellowstone: il punto d’arrivo del neo-western di Sheridan
La prima stagione di Yellowstone era da considerarsi “di prova”. Sullo sfondo della dicotomia cowboy-indiani 2.0 infatti, si caratterizzava di forti immagini inserite in un dispiego dell’intreccio “alla Re Lear” con cui far entrare lo spettatore in confidenza con la grammatica filmica neo-western di Sheridan e le dinamiche familiari dei Dutton.
Con la seconda invece, Sheridan ha settato un evidente cambio di rotta. A partire da un ritmo decisamente più teso e maggior consapevolezza dell’ambiente scenico e dei suoi contorni. Nel suo giocare con i topos del genere di riferimento, le atmosfere western di Yellowstone si fanno ancora più dense, ora nelle dinamiche “da ranch”; ora facendo evolvere in modo elasticamente dinamico gli archi di trasformazione degli agenti scenici.
Quello che non si poteva in alcun modo immaginare però è che Sheridan scegliesse di approcciarsi così alla terza stagione; mutandone l’inerzia stessa alla base della narrazione toccando (metaforicamente) appena due fili. A cambiare è infatti la dicotomia cowboy-indiani. Topos che dopo aver rappresentato la pietra angolare delle prime due stagioni, nella terza lascia il posto a un’inedita e insolita inerzia di stampo crepuscolare.
Sheridan infatti va a trattare dei massimi sistemi, avvolgendo il conflitto scenico di Yellowstone attorno al divario valoriale tra civilizzazione/progresso, e selvaggio west. Più che tipico topos del cinema western ampiamente declinato e strumentalizzato per ragioni meta-linguistiche, in favore della poetica dell’opus di riferimento.
Taylor Sheridan e una terza stagione che è pura proto-nostalgia
Per John Ford ad esempio, rappresentò la pietra angolare de L’uomo che uccise Liberty Valance (1962), avvolgendolo attorno alla demitizzazione del mito della frontiera; per Sergio Leone il punto d’incontro di quel C’era una volta il west (1968), ode d’amore al western classico declinata secondo le estetiche Spaghetti leoniane; non ultimo da Michael Cimino ne I cancelli del cielo (1980) che ne decantò la criticità annegandolo in un sogno americano insanguinato e xenofobo.
In Yellowstone acquista invece un sapore insolito, contrastante. Vive infatti di scorci fordiani e vallate popolate da cowboy da ranch; ballate al chiaro di luna; shottini di whiskey in piena notte e pane fritto e tenerezza al mattino; ma anche di uomini d’affari senza scrupoli alla guida di mustang nere ultimo modello.
Una proto-nostalgia crepuscolare che poggia tutta sul contrasto valoriale di cui si fanno portatori i John Dutton e Rip Wheeler e dei Roarke Carter di Yellowstone. Simulacri di un mondo passato fatto rivivere, ma prossimo all’estinzione, e chi invece, è pronto a buttarne giù i costrutti per lasciare spazio alla ferrovia del progresso. Qualcosa che rievoca in parte l’espediente valoriale alla base de Il mucchio selvaggio (1969) di Sam Peckinpah e dei suoi Pike (William Holden) e Thornton (Robert Ryan). Uomini classici trapiantati in un mondo moderno dal genere revisionato e rinnovato. Esattamente come gli sheridaniani Dutton e Wheeler, e la cornice neo-western seriale di riferimento che corrisponde al nome di Yellowstone.
Chi darà da mangiare a questo mondo quando non ci saremo più?
C’è tanta, tantissima carne al fuoco per il gioiellino seriale di Sheridan giunto in Italia al terzo ciclo di episodi. La bravura di Taylor Sheridan sta tutta nell’esser riuscito a portare a compimento l’evoluzione della sua creatura narrativa partendo da tanti piccoli aspetti quasi impercettibili, mutandone infine i caratteri partendo dalle fondamenta dell’inerzia alla base. Una rivoluzione copernicana che è “revisione della revisione” di un genere che di suo è già bricolage narrativo tra componente valoriale del passato ed estetiche cinematografiche del presente.
Un evidente salto di qualità tra seconda e terza stagione, che se da una parte sembra segnare definitivamente il percorso narrativo di un Yellowstone, giunto al capolinea – almeno da un punto di vista tematico e autoriale – dall’altro ci fa ben sperare per il proseguo e una quarta stagione in dirittura d’arrivo – residui pandemici permettendo – proprio nel 2021; altri dieci episodi da gustare tutti d’un fiato per l’unico, vero, erede del cinema western classico.