Fortuna recensione film di Nicolangelo Gelormini con Valeria Golino, Pina Turco, Libero De Rienzo, Cristina Magnotti e Anna Patierno
La piccola Nancy (Cristina Magnotti) vive con gli amorevoli genitori (Valeria Golino e Libero De Rienzo) in un quartiere popolare, seguita da una giovane psicologa (Pina Turco) che cerca di comprenderne distrattamente l’enigmatico mutismo. Nei giochi con i suoi amici, però, Nancy si chiama Fortuna ed è una principessa di un pianeta lontano dove attende di tornare.
Anzi no: Nancy si chiama davvero Fortuna, ha il papà in carcere e le figure della madre e della psicologa, coi rispettivi caratteri, sono state invertite da lei a causa della sindrome da disorientamento temporale, un disturbo che la porta a confondere realtà e immaginazione, di cui soffre da qualche tempo. Da quando è costretta a custodire nel silenzio un terribile segreto.
Fortuna: un nome che sembra una beffa quando tutto intorno è degrado, quando il mondo dei grandi è pura violenza e l’unica via di fuga è affidata alla disperazione della fantasia, al rifugio in un mondo immaginario non dissimile dalla realtà ma ripulito delle scorie più pesanti.
Un nome paradossale come quello che era stato scelto per Fortuna Loffredo, bambina del Parco Verde di Caivano, in provincia di Napoli, assassinata nel 2014 a soli sei anni dopo aver subito ripetuti abusi sessuali insieme ad altri minori.
E’ alla sua tragica vicenda che si è ispirato – pur non volendone proporre una ricostruzione – il regista napoletano Nicolangelo Gelormini, il quale per il suo primo lungometraggio ha deciso coraggiosamente di raccontare una storia disturbante e non priva di insidie.
Il risultato, tuttavia, è assolutamente pregevole. E ciò anche grazie a delle precise scelte narrative ed estetiche che, rifuggendo da alcuni topoi abusati, rivelano, già all’opera prima, la forte impronta autoriale di questo giovane filmmaker.
Fortuna, infatti, ha il pregio di non aderire all’abituale cliché iperrealistico dei racconti delle periferie. E anzi, preferisce prendere le mosse dalla parte opposta, ricorrendo a una messa in scena dai toni onirici che predilige la visionarietà alla descrizione. È così che Gelormini evita di mostrare direttamente la violenza, affidandone l’aberrante rappresentazione (quasi) esclusivamente al dolore implosivo – a tratti allucinato – della piccola protagonista, ai propri silenzi e al suo apparente distacco che, nella fissità e nella sospensione di certe inquadrature, sembra rendere tributo all’astrattismo di un Roy Andersson svuotato della proverbiale ironia.
Un’opzione etica di spessore, questa, supportata da scelte formali (dal sonoro all’uso della macchina da presa) perfettamente funzionali alla sottolineatura degli stati emotivi e alla costruzione di un legame empatico spettatore-attore che funziona a meraviglia: come di recente visto nel bel The Father – Nulla è come sembra (2020) di Florian Zeller, infatti, anche Fortuna vuol trascinare chi guarda dall’altra parte dello schermo nel vortice confuso della protagonista, vuol fargliene saggiare direttamente la paura, il disagio e lo spaesamento. Ne scaturisce un racconto straniante, privo di concreti riferimenti spazio-temporali e striato di venature horror à la Robert Eggers, dalle cui pellicole paiono mutuati anche i suoni disturba(n)ti e ossessivi.
Fortuna, perciò, preferisce l’ellissi all’approfondimento, il frammento alla linearità. È un film che procede per simboli, che avanza a livello quasi subliminale attraverso tracce appena percettibili e minuscoli segni che, disseminati qua e là anche grazie all’ottimo montaggio curato dallo stesso Gelormini, conducono lo spettatore all’interno un mistero rivelato solo alla fine. Nel mezzo, stagliati sullo sfondo, scorrono gli adulti colpevoli, i traditori dell’innocenza, la cui mostruosità è solo volutamente accennata, affidata piuttosto alle brevi ma precise pennellate di un quadro sorrentinianamente grottesco, atto a rimarcare l’abiezione attraverso la pochezza e lo squallore.
Fanno eccezione, tra questi, i personaggi delle due madri-psicologhe (ottimamente incarnate da Valeria Golino e Pina Turco), figure solo apparentemente contrapposte, ma in realtà unite dal dramma dell’impotenza: il loro fronte comune in difesa della piccola protagonista – baluardo d’amore asimmetrico e incapace di comunicare – nulla potrà al cospetto del male, troppo grande, troppo raccapricciante per poter essere sconfitto.
Fortuna, dunque, è, in questo senso, un racconto profondamente cupo e pessimista, esattamente come lo è il film ad esso più accostabile: quel Favolacce dei fratelli D’Innocenzo pure incentrato sul tema dell’infanzia tradita. Ma mentre lì quel che si rivela è l’orrore della normalità adulta agli occhi dei bambini, in Fortuna il colpo pare farsi ancor più basso e ripugnante, dal momento che ci si cala nelle viscere della ferocia umana per ricavarne una storia così malata e dura da non poter essere raccontata, se non attraverso una favola. Una favola nera sospesa tra horror e incubo. Una favolaccia, per l’appunto, ma così tremendamente vera e dolorosa che avremmo preferito non fosse mai stata scritta.