The Velvet Underground recensione documentario di Todd Haynes con Lou Reed, John Cale, Maureen Tucker, Sterling Morrison presentato a Cannes 74
Lou, John, Nico e gli altri
Difficile pensare a un nome più adatto di quello del regista Todd Haynes per mettere insieme un documentario che restituisca l’America in cui si sono mossi i Velvet Underground, leggendaria band che scrisse le sue regole nel rock e nel pop, summa di individui singolarmente straordinari che hanno già ispirato il cinema in passato (vedi Nico dell’italiana Susanna Nicchiarelli). Quella di Lou Reed e John Cale è un’epoca per certi versi impenetrabile al sentito odierno, fatta di abissi interiori che si aprono durante infanzie solitarie ed evolvono in drammatici scontri con le dipendenze e con il mondo.
Haynes esplora questo mondo plurale e diversificato tante volte raccontato attraverso una singola prospettiva (solitamente quella di Lou Reed). Lo fa forte della sua grande efficacia formale ma anche di una sensibilità affine a quel panorama musicale, che nel documentario viene raccontato nelle sue molteplici incarnazioni e intricate connessioni con lo scenario culturale newyorkese degli anni ’60.
Da Velvet Goldmine ai Velvet Underground
C’era molta aspettativa rispetto al documentario di Haynes perché già nel 1998 con Velvet Goldmine aveva saputo catturare l’essenza del glam rock in maniera memorabile, ispirandosi alla figura di David Bowie. Pur essendo il regista di pellicole eleganti come Carol e Dark Waters, Haynes ha una silente vena rock e talvolta sovversiva (vedi il bellissimo esordio Poison), che si rivela ideale per raccontare gli abissi interiori e le sperimentazioni musicali della band simbolo degli anni ’60.
In Velvet Goldmine il racconto era comunque fiction, qui siamo nei territori del documentario più tradizionale, la cui forma è ineccepibile ed elegante. Prodotto da Apple Original, il film si apre con alcuni primi piani di Cale e Reed in bianco e nero girati da Andy Warhol nella Factory, giustapposti a pubblicità e clip televisive degli anni ’60, quasi a mancare l’abissale distanza tra il sentito comune dell’epoca e una band che ne avrebbe raccontato il negativo fotografico.
Un regista al servizio delle sue storie
L’approccio di Haynes è sobrio e impersonale, senza interventi diretti nel raccogliere e montare le testimonianze e la voce dei sopravvissuti che ricordano e tratteggiano i tormentati rapporti di amicizia e insofferenza alla base dei Velvet Underground. Haynes tira fuori un racconto collettivo, che non renda la figura di Lou Reed totalizzante, dando il giusto peso al talento e alla sensibilità di Nico e Maureen “Moe” Tucker, al contributo insostituibile di Andy Warhol nel lanciare la band, a una serie di figure che hanno orbitato attorno al gruppo ma che sono state ben più di un semplice contorno.
Il tutto con uno stile che replica e sublima i visuals di cui è composto lo stesso immaginario visivo della band: la banana in copertina, le videoproiezioni che scorrono sui corpi dei musicisti durante le performance newyorkesi, gli sguardi inquieti catturati dal bianco e nero dell’epoca.