Flag Day recensione film di e con Sean Penn, Dylan Penn, Josh Brolin, Katheryn Winnick, Regina King, Norbert Leo Butz, Eddie Marsan e Bailey Noble
Dove arriva l’amore di un padre
Quando sei una star del calibro di Sean Penn hai tutta una serie di possibilità e privilegi. Per esempio quello di calibrare perfettamente un film per tentare di lanciare la carriera di tua figlia Dylan Penn, bellissima ma non così talentuosa dal punto di vista recitativo.
È dura non sentirsi un po’ vittima dell’influenza di Sean Penn trovandosi in sala a tarda serata a vedere la sua nuova pellicola in concorso, Flag Day, la più debole per ora vista qui in Croisette.
Un’insufficienza non grave per un film molto insistito e poco riuscito ma ben lontano dal livello abissale raggiunto dalla precedente pellicola di Penn passata in concorso a Cannes. A modo suo Il tuo ultimo sguardo (2016) è diventata una pellicola leggendaria in Croisette, in quanto titolo di rarissima bruttezza.
Tormenti familiari in un’America violenta
Flag Day invece è un film che ha le sue solidità e una storia (vera) da raccontare: quella di Jennifer, una giovane donna statunitense la cui vita è stata profondamente segnata dal rapporto burrascoso con i genitori. La madre alcolizzata diviene da subito oggetto del suo disprezzo, il padre che va e viene John Vogel (Sean Penn) gode invece della sua iniziale adorazione di bambina. Crescendo e attraversando una profonda crisi adolescenziale fatta di droga e solitudine, Jennifer comincia a vedere l’ipocrisia e l’ambiguità del padre, piccolo truffatore ed eterno Peter Pan dall’attitudine mutevole verso i figli.
Basato sulla storia personale della giornalista Jennifer Vogel, Flag Day racconta ancora una volta l’America del disagio e della violenza familiare, stavolta concentrandosi sull’era Clinton. Case bellissime e stamberghe fatiscenti, genitori violenti e adolescenti tormentati, droghe, crimine, fino a quando Jennifer cresce e prendere il controllo della sua vita, mentre il padre va incontro a un destino che, nelle parole della figlia, era destino fosse spettacolare e violento.
Sean Penn ha perso il suo tocco
Lo sguardo intenerito di padre di Sean Penn è chiaramente visibile in come il film ritragga la figlia Dylan, la ponga continuamente al centro della scena seguendola insistentemente con la cinepresa. La giovane però non ha il talento o la maturità necessaria per reggere da sola il peso di un film così insistito: una voce fuori campo ossessiva infesta la prima parte sull’infanzia della protagonista, in quella finale primi piani asfissianti dello sguardo di lei non ne evidenziano certo l’incisività interpretativa, quanto piuttosto le sue mancanze in questo senso. Con un’altra attrice e con un Penn regista più distaccato, chissà, forse Flag Day avrebbe potuto essere un film migliore, però rimane un problema di fondo: quello della mancanza di misura.
Dove è finito il regista dal tocco sensibile di Into the Wild? Difficile riconoscerlo nello stile di regia di Penn oggi, dove anche la musica viene sempre sparata al massimo, ogni minima informazione sottolineata e ripetuta fino a diventare esasperante. Il cinema di Penn, un tempo così potente in quando contiguo alla sensibilità del pubblico, sembra oggi inconsapevole e incurante col presente.
Non c’è alcun senso di misura in Flag Day, dove lo spettatore si ritrova asfissiato dall’affetto che Sean Penn prova per la figlia, dall’urgenza di convincere anche il pubblico ad amarla e apprezzarla. Ci sono cose che nemmeno un padre influente come Sean Penn può far succedere, almeno non con film dimenticabili come questo.