The Lost Daughter recensione film di Maggie Gyllenhaal con Olivia Colman, Jessie Buckley, Dakota Johnson, Ed Harris e Peter Sarsgaard a Venezia 78
Sia santificato il nome di Elena Ferrante, fervida fucina di copiosi trattamenti per prodotti audiovisivi. Stavolta la palla al balzo la prende Maggie Gyllenhaal con The Lost Daughter, intravedendo nel suo romanzo La figlia oscura un sentimento femminile da sottrarre alla carta stampata e consegnare a un pubblico se possibile ancora più ampio con un film di profonda introspezione.
C’è un’area grigia che separa la donna dalla madre. Nell’intersezione tra queste due figure dissociate in un corpo solo avviene il parto, con una nuova vita che si aggiunge ad un’esistenza che aveva determinate coordinate. Si può diventare mamma dopo aver preso per la prima volta in braccio il sangue del proprio sangue ma lo si può fare anche a quasi cinquant’anni in vacanza in Grecia, lontano da tutto e tutti. Non c’è manuale, non c’è protocollo, c’è un segreto personale che ognuna nasconde al mondo senza sapere che verrà un giorno rivelato.
Ci sono però tratti comuni e passaggi inevitabili che hanno permesso a Maggie Gyllenhaal di provare di imbastire un film pieno di echi da far risuonare nel pubblico. Ce ne sono almeno tre:
- Un evento traumatico. Leda, la protagonista portata in scena da Olivia Colman, assiste ad una scena in spiaggia dove una bambina si perde allontanandosi troppo dal suo ombrellone, attivando un ricordo della sua esperienza pregressa. Vivere la vita degli altri riscoprendo il proprio mistero;
- Il gesto. Ha una particolare abilità che ha condiviso con le sue figlie in passato: è capace di sbucciare la frutta senza rovinarla, generando un rifiuto simile ad un serpente. Un momento quotidiano diventa una bussola emotiva per dipanare una matassa ingarbugliata di ambiguità del passato;
- L’oggetto, per finire. La maternità è costellata di passaggi a vuoto, tradimenti e insensatezza che si concretizzano in oggetti. Leda, in un momento di opacità, si appropria della bambola appartenente alla bambina della spiaggia dando il via ad un viaggio a ritroso alla ricerca di colpe forse in un certo senso mai espiate.
L’esordio alla regia dell’attrice statunitense avviene nel segno della condivisione di un momento plurale che riguarda l’intera umanità ma viene esperito nel profondo soltanto dalla donna. È un invito a confrontarsi su un fenomeno che, per via della sua ovvietà, rischia di lasciare per strada un’affascinante complessità e una platea che purtroppo solo in questo momento storico è sulla strada della parità culturale.
Chi sa, parli. Chi non sa, si metta attentamente in ascolto perché c’è tutto da imparare.