Jung – Nella terra dei Mujaheddin recensione film documentario di Alberto Vendemmiati e Fabrizio Lazzaretti con Gino Strada, Ettore Mo, Kate Rowlands
Il 13 agosto 2021 il mondo ha perso Gino Strada. L’eroe ha lasciato il posto al mito, l’uomo alla propria icona.
Processi di laica santificazione metteranno da parte, almeno per un po’, polemiche e macchine del fango: il fondatore di Emergency non era un personaggio apprezzato in maniera piana e incondizionata, non era amato da tutti. Non certamente da quei poteri che si generano nelle divisioni e nelle disuguaglianze. Non dai signori della guerra e dai portatori dei molteplici interessi a quest’ultima legati. Non da quella parte della pubblica opinione che in lui individuava l’utopista, il pacifista ad ogni costo. Come se la pace non rappresentasse sempre e comunque un valore assoluto; come se ogni conflitto, ogni goccia di sangue versato, ogni dolore, amputazione o morte subiti non costituissero un orrore da estirpare. Gino Strada non era amato da costoro e proprio per questo era amato da molti, moltissimi, che ora lo piangono sinceramente, orfani della sua guida, per sempre privati di quella levatura etica e umana che era faro ed era monito. Lo piange anche chi scrive, diviso tra la speranza che il suo insegnamento non vada perduto e la certezza di vivere in una società sempre più intrisa di cupo individualismo.
MadMass.it, con la sua rubrica Restiamo Umani, vuol ricordare il grande medico appena scomparso proponendo ai suoi lettori la visione Jung – Nella terra dei Mujaheddin, splendido documentario diretto da Fabrizio Lazzaretti e Alberto Vendemmiati, che, in un arco di tempo dal febbraio 1999 alla primavera 2000, narra delle vicende di Gino Strada e della sua Emergency legate alla realizzazione di un ospedale nell’Afghanistan lacerato dalla guerra talebana. Difficilmente un racconto per immagini riesce ad immergersi nelle profondità di una realtà complessa come fa l’opera che oggi vi proponiamo.
Jung (“Giang”) – che in afgano vuol dire “guerra” – non è affatto un resoconto celebrativo, né tantomeno un racconto di parte. È l’esatto contrario: un reportage crudo e volutamente disturbante che, anche grazie alla presenza del giornalista corrispondente di guerra Ettore Mo, esplora a 360° la realtà di un Paese martoriato da decenni di guerre e divisioni. Un’opera coraggiosa e illuminante che non omette alcunché e che non rinuncia a incursioni sul fronte, a testimonianze di violenze e soprusi, a corpi dilaniati.
Perché bisogna vederlo lì, senza censure o imbellettamenti, Gino Strada, per capirne sino in fondo la grandezza. Bisogna osservarlo sul campo mentre si presta alla fatica quotidiana del ricomporre la poltiglia di gambe esplose insieme alle mine che hanno calpestato. Occorre che se ne percepiscano la rabbia repressa, la stanchezza e lo sconforto che, anziché fiaccarlo, lo rigenerano per una lotta sempre più difficile da sostenere.
In due ore, Jung – Nella terra dei Mujaheddin ci restituisce il ritratto autentico di un eroe suo malgrado, di un uomo con la “U” maiuscola che, conficcando il suo sguardo nella brutalità umana, ha saputo ricavarne amore per il prossimo oltre ogni pregiudizio. Quello che Jung – Nella terra dei Mujaheddin ci mostra è un Gino Strada dalla scorza ruvida sotto la quale è custodita una umanità profonda e sincera. Un uomo al contempo forte e tenero capace di parlare alla stessa maniera con i più umili e con gli uomini di Stato (tra questi, il leggendario Ahmad Massoud, “Leone del Panshir”). Sempre uguale a se stesso, allergico ai fronzoli e ai parolai. Perché, così come il Cosimo de Il Barone rampante di Calvino, lui sapeva che “solo essendo così spietatamente se stesso come fu fino alla morte, poteva dare qualcosa a tutti gli uomini”. E ne ha date di cose agli uomini: così tante che, oggi che non c’è più, si fa fatica a elencarle tutte. Con Restiamo Umani ricordiamo l’amore per la pace, il senso di solidarietà, il principio di uguaglianza, il richiamo ai diritti fondamentali. In sintesi, il rispetto per ogni essere umano a prescindere dalla propria condizione, cultura o provenienza.
Era, chissà, un’idea di società universale quella che lui aveva in mente. Un’utopia che non conosceva divisioni e differenze, a cui, forse, pur nella consapevolezza della sua irrealizzabilità, si ispirava per alimentare le proprie azioni, per dirigerle dalla parte giusta. Ci piace immaginare che questo era il suo sogno, quella visione potente e lontana che ogni grande uomo coltiva dentro di sé per trovare il coraggio e la forza di superare qualsiasi ostacolo. Gino Strada è morto. Il suo cuore enorme e malandato ha ceduto proprio nei giorni in cui, in Afghanistan, l’Occidente esportatore di democrazia ha ceduto il passo al governo talebano. Ne aveva scritto su di un quotidiano nazionale esattamente il giorno prima di morire. Come a chiudere un cerchio esistenziale dentro il quale lui s’è definitivamente unito al popolo a cui aveva donato gli anni più importanti della sua vita.
È andato via silenziosamente in una giornata di mezza estate, in punta di piedi, senza clamori. Come nel suo stile. Si fa ancora fatica a credere che i suoi grandi occhi non getteranno più il loro sguardo fermo sul mondo; che in quell’ospedale faticosamente costruito ad Anabah nella valle del Panshir – così dettagliatamente illustrato da Jung – Nella terra dei Mujaheddin – non si scorgerà più la sua figura alta e magra correre da una parte all’altra in aiuto dei malati. Forse, un qualche pensiero magico collettivo lo aveva incarnato in una sorta di eroe sovrumano, in una creatura immortale. Ma la dura realtà ha riportato tutti con i piedi per terra: Gino Strada non c’è più.
Restano le tante opere realizzate, i suoi grandi insegnamenti, i propri valori. Resta la sua creatura, Emergency, splendido lascito all’umanità. Resta Gino Strada, non più uomo ma visione. La visione di un mondo pacificato e unito che forse non si realizzerà mai, ma che senz’altro saprà ispirare tutti coloro che vorranno seguirne le orme.
Grazie Gino!