Squid Game recensione serie TV Netflix di Hwang Dong-hyuk con Lee Jung-jae, Lee Byung-hun, Park Hae-soo, HoYeon Jung, Lee Yoo-mi e Wi Ha-joon
L’industria audiovisiva orientale è da tanti anni sulla cresta dell’onda, non è più una sorpresa l’alto livello qualitativo delle produzioni, lo sarà anche per Squid Game?
La nuova serie originale Netflix è pronta a catturare lo spettatore, nel tentativo del colosso americano di plasmare ancora una volta la cultura pop contemporanea. Prendendo a piene mani dai battle royale e dagli action thriller asiatici in cui gente si ammazza per sadico divertimento (come As the Gods Will di Takashi Miike o Battle Royale di Kinji Fukasaku) lo showrunner Hwang Dong-hyuk ci trasporta in un colorato gioco al massacro, feroce e violento, come solo il cinema asiatico ci dimostra di saper fare.
Seguiamo Seong Gi-hun (Lee Jung-jae), uomo sfortunato e pieno di debiti, archetipo di personaggio diventato icona con Parasite e Oldboy, che nella disperazione si ritrova coinvolto come partecipante di un misterioso gioco a premi gestito da un’oscura organizzazione. Insieme a lui altre 455 persone, ciascuna con storie di vita differenti ma unite da un comun denominatore: la necessità di soldi. La vita diventa un gioco, la ricompensa sono i soldi, talmente tanti da schiacciare i concorrenti, portati ad usare la loro umanità come ultima moneta di scambio. Tra questi concorrenti si creano dinamiche e relazioni, e piano piano la storia da Gi-Hun si sposta anche su altri protagonisti, grazie alla sceneggiatura che riesce attraverso questa lotta alla sopravvivenza ad esplorare la società.
Potere, soldi, opulenza, povertà, sono alcuni dei temi che vengono toccati in maniera esplicita. Dentro al gioco, tanti livelli, ad ogni livello tante eliminazioni. Giochi elementari, tipici dei bambini, che assumono però qui forme di primitiva violenza, in una costante lotta alla sopravvivenza. Tra tutti gli intrecci di storie, si ha la sensazione però che qualcosa venga lasciato al caso. La narrazione per lunghi tratti è un instancabile climax di tensione, densa di tensione psicologica e non solo di violenza barbarica. Certe volte però il ritmo degli eventi viene spezzato, dando l’amara sensazione di trovarsi di fronte a sequenze usate come riempitivo per giungere al finale. Le storyline di alcuni personaggi troveranno conclusioni blande, che stonano con il resto di una sceneggiatura di ottimo livello.
Nessuna pecca invece nel cast di attori, corale e diversificato nel riuscire a raccontare tante storie e tanti problemi. Come Sang-Woo (Park Hae-soo), amico d’infanzia di Gi-Hun, che a causa di investimenti non riusciti si ritrova sull’orlo del fallimento finanziario ma soprattutto personale. La sua è una delle prestazioni più convincenti della serie, un personaggio ferito nell’orgoglio, manipolatore ed intelligente. O come HoYeon Jung al suo debutto attoriale nei panni di una giovane ragazza in fuga, alla ricerca della propria famiglia. Personaggi destinati a rimanere nell’immaginario popolare di Netflix, ammiccando a serie già di conclamato successo come La Casa di Carta.
La componente visiva è sempre importante in opere di questo genere, in Squid Game lo è ancora di più. A colpire è sicuramente l’uso di giocose e coloratissime scenografie, che sono sì in antitesi con lo straziante gioco mortale messo in atto ma allo stesso tempo si mostrano perfettamente adatte al tono della serie e destinate a rimane impresse nello spettatore, giocando sull’innocenza e sulla semplicità che accomuna i giochi dei bambini. In una società che si nutre costantemente di immagini, Squid Game riesce con la sua zuccherosa violenza visiva ad esprimere un potenziale tale da farsi spazio nell’iconografia televisiva contemporanea.
Estetica guidata dalla solida regia e visione di Hwang Dong-hyuk, regista di tutti e nove gli episodi che, ammiccando ai ben più noti maestri della sua terra d’origine, dimostra ancora una volta gli altissimi standard della cinematografia sudcoreana. Squid Game è figlio di questa corrente, un prodotto sicuramente derivativo che laddove non brilla per originalità riesce a sopperire con la qualità artistica.