Mon légionnaire recensione film di Rachel Lang con Camille Cottin, Louis Garrel, Ina Marija Bartaité, Aleksandr Kuznetsov e Naidra Ayadi
Nonostante Mon légionnaire non sia stato un film particolarmente semplice da realizzare, almeno dal punto di vista produttivo, Rachel Lang decide tuttavia di portare questa storia sullo schermo e riesce a farlo in modo realistico: il produttore Jérémy Forni spiega infatti che la pellicola è stata realizzata in generale senza il sostegno dell’esercito ed in particolare senza il sostegno della Legione straniera, per cui hanno dovuto rilocare il set e spostarsi in base alle disponibilità che incontravano ed i mezzi a loro disposizione (il film non è stato girato in Mali, dove effettivamente la Legione straniera opera, bensì in Marocco). Sottolinea anche come i costumisti siano venuti in soccorso per contribuire a dare quel tocco di realismo in più, realizzando i costumi con estrema precisione.
La storia segue le vicende quotidiane di Maxime (Louis Garrel), capitano della Legione, e Céline (Camille Cottin), sua moglie, che svolge la professione di avvocato. Parallelamente a questa famiglia vengono raccontate anche le vicissitudini di una coppia che si è appena sposata, ben più giovane e con meno esperienza, formata da Vlad (Aleksandr Kuznetsov), soldato appena arruolatosi nella Legione, e sua moglie Nika (interpretata dall’attrice lituana Ina Marija Bartaitė, tragicamente scomparsa in un incidente stradale ancora prima della premiére a Cannes del film). Mentre i rispettivi mariti sono impegnati in missione, Céline e Nika finiscono per trascorrere del tempo insieme, in particolare dopo che Nika è stata assunta da Céline come babysitter per stare con il figlio piccolo Paul (Léo Lévy), essendo Céline impegnata in lunghi viaggi di lavoro che la portano a stare lontana da casa per alcuni periodi. Trascorrono quindi su due binari le giornate degli uomini impegnati in missione all’estero e delle donne che restano a casa.
La regista riporta lo spettatore nella dimensione di attesa e sospensione attraverso inquadrature lunghe e, dal punto di vista scenografico, attraverso interni quasi asettici, come la stanza di un ospedale, oppure, appunto, una sala d’attesa. Gli interni della casa di Céline e Maxime sono perfettamente geometrici ed ogni oggetto, ogni soprammobile ed ogni più piccolo dettaglio sembra essere posizionato precisamente al suo posto. Nonostante il paesaggio assolato della Corsica, dove mogli e figli vivono, non ci sono particolari note di colore; anzi, il mare, nelle lunghe inquadrature disseminate all’interno della pellicola, sembra diventare stranamente piatto, come se anche la natura potesse risentire di questa condizione di eterna incertezza ed apprensione. Si tratta di una sensazione percepita in modo condiviso e che può o risolversi con il ritorno a casa dei soldati, oppure infrangersi drasticamente con una telefonata da parte delle autorità.
Attraverso i lunghi tempi morti che costellano da una parte la missione di Maxime e dall’altra le giornate di Nika – la ragazza, infatti, non ha un’occupazione se non quella di badare a Paul – lo spettatore riesce ad entrare nel vivo della storia, rendendosi partecipe dell’attesa e della speranza, unita alla tensione e alla paura che qualcosa possa sempre andare storto, trattandosi comunque di una missione militare.
Lang consapevolmente rimuove scene di estrema violenza e di estremo sentimentalismo: gli unici scatti di nervosismo, come a rompere questa piattezza della vita di tutti i giorni, sono affidati al figlio piccolo di Maxime e Céline che, proprio in virtù della sua giovanissima età, non riesce a comprendere qualcosa di così astratto come un conflitto o le lunghissime assenze del padre. Per dare allo spettatore l’idea di brutalità della guerra non si hanno scene cruente ma si osservano i traumi che i soldati sperimentano in prima persona, traumi che hanno come conseguenza diretta quella di definire e caratterizzare in modo sempre più invasivo la loro vita privata. Questo modo di raccontare riesce ad avere un effetto molto più immediato rispetto alle solite scene di sangue viste e riviste: è evidente come la vita militare influisca sui rapporti interpersonali di Maxime, il quale, nonostante sia fisicamente insieme alla sua famiglia, si rivela nella realtà dei fatti assente e distratto, come se avesse lasciato la testa sul campo di battaglia.
Mon légionnaire non ha un andamento dinamico e veloce come ci si potrebbe aspettare dai film di guerra: non è un film d’azione e non intende neanche esserlo. Riesce a risultare coinvolgente nella dimensione in cui lo spettatore arriva ad immedesimarsi nei personaggi che, nonostante svolgano attività molto diverse, sono comunque tutti legati tra di loro dal filo rosso dell’attesa: c’è chi aspetta di tornare a casa, chi aspetta di ripartire, chi aspetta un figlio e chi aspetta di poter essere abbastanza grande per poter comprendere tutto questo – Paul è ancora troppo piccolo per capire il lavoro del padre e Nika è ancora troppo giovane per abituarsi alle lunghe assenze del marito, cosa che, invece, Céline, avendo più esperienza con gli anni, ha imparato a fare. Rachel Lang – che in prima persona ha avuto esperienza nel settore militare, essendosi arruolata durante la sua gioventù – porta quindi sullo schermo una storia semplice ma originale su quanto sia difficile combattere e resistere alla lontananza provocata da qualcosa di più grande di tutti i personaggi.