Charm Circle recensione documentario di Nira Burstein con Adina Burstein, Uri Burstein, Raya Burstein e Judy Burstein presentato al Festival dei Popoli 62
Charm Circle, oltre ad essere il titolo del documentario realizzato dalla giovane regista Nira Burstein sulle dinamiche ed i rapporti della sua famiglia, è anche il nome di un quartiere residenziale dove, da sempre, i suoi genitori hanno abitato. È con queste parole che si apre il lungometraggio: il padre della regista introduce lo spettatore all’ambiente familiare dove gran parte del film viene girato, facendo anche qualche sporadica battuta sul gioco di parole dato da Charm (fascino): ma, contrariamente a quanto il nome potrebbe suggerire, di affascinante, in questa comunità – appunto, Circle – non sembra esserci niente. Il tema del cerchio, oltre a ricorrere nel nome del quartiere e nel titolo del film, ritorna per tutto il corso della storia narrata, che si svolge all’interno di una cerchia familiare, dove la regista indaga con occhio critico ma comunque affezionato le vicende della sua famiglia e le dinamiche che legano genitori e figli.
Charm Circle si potrebbe definire un film d’occasione – viene infatti realizzato in occasione del matrimonio di una delle tre sorelle, Adina, che decide di sposarsi con due donne in una cerimonia piuttosto fuori dagli schemi – ma attraverso oggetti, immagini e testimonianze ripercorre la storia dei suoi genitori dal giorno in cui si sono conosciuti fino ad arrivare al giorno d’oggi.
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Non si tratta di una famiglia perfetta, che certo non esiste se non nella finzione cinematografica, e attraverso le figure delle due sorelle, Judy e Adina, la regista riesce a ricostruire un punto di vista molto diverso sulla figura dei genitori e sul ruolo che hanno ricoperto per le figlie. Da una parte lo spettatore ascolta un’opinione riconoscente, quella di Judy, delle tre la sorella minore che ha ancora bisogno dell’aiuto dei genitori in quanto affetta da un ritardo cognitivo; dall’altra emerge un punto di vista rancoroso, seppur comprensivo, nel ritratto che Adina dipinge quando le viene chiesto di esprimersi sui suoi genitori. È complicato riuscire a trarre una conclusione e Nira Burstein vuole proprio produrre questo effetto su chi segue le vicende familiari: è evidente il risentimento nei confronti dei genitori per il modo in cui hanno tirato su queste tre figlie, talvolta trascurandole e rinnegandole nascondendosi dietro a pretesti religiosi – la famiglia intera è di fede ebraica – che rivelano però una visione del mondo ancora arretrata e bigotta.
Non sembra però che anche il rancore che Adina prova sia un sentimento spontaneo, in fondo la madre, per quanto instabile mentalmente e soggetta a frequenti crisi depressive durante l’infanzia e l’adolescenza delle ragazze, ha cercato per quanto possibile e nei suoi limiti di crescerle nel miglior modo che poteva.
Il documentario ha quasi sempre un’ambientazione fissa: la casa dei genitori dove da piccole hanno abitato anche le tre ragazze. Appare come una casa disordinata, dove gli oggetti si affastellano l’uno sull’altro e sembrano moltiplicarsi a vista d’occhio: regna il caos. Nira, riprendendo la casa, è perennemente circondata da questa confusione e da questi oggetti, allo stesso modo in cui, per un motivo o per l’altro, si ritrova sempre nell’occhio del ciclone con i suoi familiari: trascinata ora da una parte, ora da un’altra, è sempre tirata in ballo al centro di discussioni a cui non prende neanche mai parte e la confusione materiale che soffoca gli ambienti fisici delle stanze della casa sembra riversarsi anche su un piano morale, travolgendo la regista.
Nonostante questo caos generale, i litigi frequenti tra genitori e figli e tra gli stessi genitori, le matasse sembrano comunque sbrogliarsi e i membri della famiglia Burstein riappacificarsi – almeno fino al prossimo litigio. Il documentario, che si chiude ad anello (ritornando nel giardino della casa dove era iniziato) mostrando il trasloco definitivo dalla casa di famiglia, lascia comunque una nota ottimistica. Come Dorothy nel Mago di Oz affermava che “there’s no place like home”, non c’è nessun altro posto come casa, identificando la famiglia con la casa e la casa con la famiglia, così il padre dichiara che “It’s charm circle, after all”; dopotutto la famiglia non è un luogo fisico ma la certezza di poter contare l’uno sull’appoggio dell’altro, nonostante le opinioni divergenti.