Flee recensione film documentario d’animazione di Jonas Poher Rasmussen con Daniel Karimyar, Fardin Mijdzadeh e Milad Eskandari
Flee (Flugt in originale, il cui significato letterale è “fuggi”) è un documentario animato del 2021 diretto da Jonas Poher Rasmussen. Già pluripremiato agli European Film Awards, al Sundance Film Festival e al Festival di Annecy nel 2021, è stato nominato allo stesso tempo come miglior film internazionale, miglior film d’animazione e miglior documentario agli Oscar 2022, caso unico per la competizione.
Protagonista della storia è Amin Nawabi (nome di fantasia), uno stimato professore universitario di trentasei anni con un passato da rifugiato del quale nessuno è a conoscenza, nemmeno il suo fidanzato. In procinto di sposarsi, sceglie di confidarsi con il suo amico d’infanzia, il regista Rasmussen.
Poco più che ragazzino, negli anni Novanta fu costretto a lasciare l’Afghanistan insieme a sua madre, suo fratello e le sue sorelle, in fuga dal regime dei Mujahideen che aveva già preso suo padre. Si rifugiò clandestinamente in Russia, dove visse un’esistenza impossibile, privo di identità e alla mercé di poliziotti corrotti e trafficanti di esseri umani, prima di riuscire ad arrivare da solo in Danimarca.
Omosessuale in un Paese dove “non esiste nemmeno una parola per dirlo”, la difficoltà di Amin nel definire se stesso è doppia, e la conquista finale così sofferta da aver messo a repentaglio le sue prospettive e relazioni anche in un mondo molto più libero. Per raccontare la storia dell’amico con il giusto distacco, Rasmussen si affida all’animazione 2D, una tecnica che, nella sua semplicità, si rivela azzeccata: estremamente malleabile, è capace di piegarsi al servizio del racconto, potenziandolo e proteggendolo.
Quando Amin racconta gli episodi più traumatici che ha vissuto, infatti, il disegno si fa più stilizzato, sfumato, dà solo l’impressione di quello che accade, scegliendo di lasciare in ombra ciò che invece è sin troppo vivido nella memoria del protagonista. Sdraiato sul tappeto della sua casa di Copenhagen, faccia all’aria e occhi chiusi, Amin si immerge nel suo passato e lo spettatore vola con lui attraverso le tappe salienti della sua vita, come la scomparsa del padre nella Kabul del 1984, la vita da profugo a Mosca o il viaggio della speranza verso la Svezia. Proprio quest’ultimo è uno dei momenti più potenti e indimenticabili del film: il colore si fa più nero, marcato, i contorni più sfocati, l’arrivo di una nave svedese è accolto come una benedizione, ma si trasforma ben presto in un nuovo incubo. Tra le altre, tante sequenze che non si dimenticano, ci sono quella della camionetta della terribile polizia russa accanto all’appena aperto McDonald’s, il viaggio in auto verso la Danimarca e tutto il finale.
In alcuni momenti, il regista lascia spazio anche alle immagini di repertorio, piccoli squarci di realtà che irrompono nella narrazione, rendendola ancora più vera. In poco meno di novanta minuti, Flee disegna con precisione l’odissea di chi viene estirpato dalle sue radici, ma anche la cicatrici psicologiche (e fisiche) che segnano i senza patria. Il film è davvero un omaggio al coraggio di Amin, che si è finalmente liberato del peso di un vissuto segreto e drammatico, e lo ha fatto grazie al cinema. Ci fa riflettere sul valore che ha vivere in una democrazia e sul nostro rapporto con gli altri.
Flee risponde alla domanda: “quanto è difficile recuperare un’identità quando ti sei abituato a non esistere?”. Racconta una storia personale e allo stesso tempo universale che, sebbene ambientata negli anni ’90, risulta oggi terribilmente attuale. La fuga di Amin è quella di migliaia di persone. Non tutti hanno avuto la sua forza o la sua fortuna nel sopravvivere, ma tutti meritano la possibilità di trovare un posto in cui sentirsi accolti, amati e al sicuro. Un posto che possano chiamare casa.