Moon Knight recensione serie TV Disney+ di Jeremy Slater e Mohamed Diab con Oscar Isaac, Ethan Hawke, May Calamawy, Gaspard Ulliel, F. Murray Abraham, Fernanda Andrade e Sofia Danu
A volte tra medicina e veleno cambia solo il dosaggio.
(Ethan Hawke in Moon Knight)
A due anni dal lancio di Disney+ in Italia, Disney e Marvel escono con convinzione dai loro confini creativi e dalle serie finite di temi che hanno caratterizzato la costruzione ed il successo dei prodotti cinematografici Marvel, declinati poi con modalità similari sul piccolo schermo, per addentrarsi verso una narrazione in grado di smarcarsi dalla reiterazione dei soliti schemi di sicuro appeal e dal fardello del brand Marvel come responsabilità verso le aspettative del pubblico e degli investitori, per proporre finalmente con Moon Knight un titolo memorabile, in grado di ergersi sulla vetta degli show Disney+ e mostrare soprattutto enormi potenzialità in termini di sviluppo della mitologia, delle storie e dei personaggi.
L’alchimia nata in pre-produzione tra l’insolito trio composto dal regista egiziano Mohamed Diab, l’attore guatemalteco Oscar Isaac e il “leggendario attore cinematografico indipendente” Ethan Hawke, così chiamato in causa dallo stesso Diab durante il nostro incontro con il cast di Moon Knight, ha permesso di esplorare personaggi, temi e ambientazioni, tratte dalla sceneggiatura di Jeremy Slater a sua volta basata sul personaggio dei fumetti creato da Doug Moench e Don Perlin nel 1975, con formule, profondità ed atmosfere nuove per la controparte audiovisiva della Casa delle Idee, finalmente in grado di proporre una hit fantasy che, oltre ad affermarsi come il migliore show Disney+ realizzato ad oggi, si staglia tra le vette del genere nel panorama streaming moderno al pari del cavallo di battaglia Netflix The Witcher.
LEGGI ANCORA: Moon Knight, l’intervista a Oscar Isaac, Ethan Hawke e Mohamed Diab
È stato proprio il mix di culture diverse dietro la macchina da presa, la vena creativa di Oscar Isaac nella costruzione del suo personaggio dalla duplice personalità, l’asso nella manica nella partecipazione di Ethan Hawke che si presenta non soltanto come villain finalmente solido e lontano dagli stereotipi Marvel ma anche come ponte verso la mitologia egizia ed il dilemma morale del libero arbitrio e dell’equilibrio tra moralità e giustizia, che attraverso il culto di Ammit ci ricorda tanto le riflessioni di Philip K. Dick in Rapporto di minoranza e i memorabili Precog di Minority Report di Steven Spielberg, a dare vita ad un’opera che, seppur preparata all’interno della “cucina” Marvel, ha riconosciuto ai suoi autori la grande libertà di rischiare davvero un approccio nuovo che, tra multietnicità funzionale alla narrazione, l’esplorazione di un immaginario immenso e tremendamente fascinoso come quello egizio, che ci rimanda con nostalgia ad opere seppur tacciate di orientalismo come Stargate di Roland Emmerich e al fascino di musei sempre misteriosi e pieni di segreti, leggende ed insidie come nei romanzi di Douglas Preston e Lincoln Child, venature genuinamente dark e tematiche scomode come la malattia mentale e i traumi reali che essa comporta, ha ripagato gli sforzi creativi nel porre le basi per un’avventura che può e deve andare oltre l’interconnessione con l’universo cinematografico Marvel per vivere e proseguire negli anni a venire di storie e di luce proprie.
Ci si confrontava recentemente con personalità come Jacques Audiard, Miguel Gobbo Diaz e lo stesso regista di Moon Knight Mohamed Diab sull’importanza di raccontare i molteplici aspetti della società che vanno spesso ben oltre i confini culturali di chi è chiamato a rappresentarla, e come questo possa avvenire solo attraverso un coinvolgimento creativo che sia multietnico e altresì sempre funzionale al racconto.
In Moon Knight il fantasy si intreccia tra piani narrativi criptici e realtà dimensionali differenti, tra affascinante mitologia e concetti estremi di giustizia, ordine ed equilibrio sociale, tra temi scomodi come la salute mentale e la proposizione di personaggi in grado offrire esperienze e relazioni nuove come quello di Layla El-Faouly interpretato dalla metà egiziana e metà palestinese May Calamawy, tra stranezze dei personaggi e aspetti orrorifici che ci avvolgono in un mondo che ci spinge alla sospensione dell’incredulità per continuare ad esplorarlo in tutte le sue potenzialità tra miti, divinità, storie e leggende.