Le otto montagne recensione film di Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch con Alessandro Borghi e Luca Marinelli a Cannes 75
La storia de Le otto montagne segue l’amicizia tra Pietro (Luca Marinelli) e Bruno (Alessandro Borghi) partendo dall’infanzia, momento in cui si sono conosciuti, fino ad arrivare all’età adulta, soffermandosi su tutti gli alti e bassi che derivano da un’amicizia di così lunga data.
Pietro abita in città, precisamente a Torino, ma trascorre tutte le sue estati nella casa che i suoi genitori hanno affittato in montagna, nel piccolo paesino di Graines, dove l’unica altra abitazione presente nella zona è proprio quella di Bruno. I due bambini – a questa altezza del film interpretati da Lupo Barbiero nei panni di Pietro e da Cristiano Sassella nei panni di Bruno, in una più che azzeccata scelta di cast per somiglianza – non potrebbero apparire più diversi fin dal loro primo ingresso in scena: Pietro è figlio unico di un ingegnere e di una maestra e appartiene alla borghesia benestante di Torino; Bruno, invece, che è nato e cresciuto in montagna, senza mai aver frequentato una scuola, trascorre le proprie giornate lavorando per mandare avanti l’attività di famiglia.
Subito tra i due protagonisti si instaura una forte amicizia, destinata a durare a lungo, nonostante si sviluppi nel tempo una grande divergenza di interessi: è soprattutto a partire dagli anni adolescenziali che i due ragazzi iniziano ad allontanarsi, dopo che i genitori di Pietro hanno proposto alla famiglia di Bruno di portare a Torino il ragazzo per farlo studiare, incontrando però l’opposizione del padre, che preferisce far lavorare il figlio. Per molti anni si perdono di vista, ma questo non impedisce loro di riallacciare i rapporti in seguito ad un tragico evento che colpisce Pietro: in questo momento di dolore, Bruno riesce a confortare l’amico come nessun altro è in grado di fare.
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Le vicende dei due personaggi principali si svolgono e prendono vita prevalentemente in montagna, ma, ben presto questo ambiente finisce per diventare la vera protagonista del film, in tutti i suoi aspetti topici: dalla rappresentazione che ne viene fatta come madre benevola accogliente nei confronti di chi la abita, si passa ad un ritratto più crudele, come quello di una matrigna ostile che tradisce e abbandona i propri figli. Pietro e Bruno si perdono e si ritrovano in questo paesaggio di montagna – spiritualmente e fisicamente – e così è portato a fare anche lo spettatore, grazie ad una serie di panoramiche e riprese aeree orchestrate in modo impeccabile dal direttore della fotografia Ruben Impens. La vastità del panorama girato in 4:3 riempie lo schermo e la scelta di questo particolare formato non è casuale. L’aspect ratio si configura come lo stesso formato che veniva impiegato dalla televisione nei primi anni della diffusione del mezzo e riflette – proprio da un punto di vista tecnico – l’unione tra presente e passato, due tempi che si intrecciano sempre nel racconto. Il film, che copre un arco di tempo dagli anni Ottanta ai primi Duemila, è quindi ambientato al giorno d’oggi, ma racconta la storia due anime “antiche” e se Bruno deciderà di non abbandonare mai la montagna, rifiutando categoricamente di adattarsi a nuovi contesti, Pietro riuscirà a modo suo ad ambientarsi altrove.
I due protagonisti hanno quindi una diversa visione del mondo, ma solo apparentemente. Bruno sottolinea continuamente la distanza tra chi abita in montagna e chi abita in città – soprattutto in un dialogo centrale della pellicola, in cui rimprovera ai “cittadini” di usare termini astratti come “natura”; la “natura”, sostiene il personaggio, non esiste e non se ne può parlare se non in termini astratti, allo stesso modo in cui si “mangia l’aria”: in montagna, dove ogni cosa ha un nome preciso e tutto si può toccare con mano, non funziona così. Bruno non cede mai a nessun compromesso, rimane fedele alla montagna – o forse sarebbe meglio dire alla sua idea di montagna – e trascorre le giornate nella ferma convinzione che non ci siano alternative a questa vita. Pietro, invece, viaggia il più possibile per trovare la sua dimensione fuori da Torino e lontano dai monti; sprona Bruno a fare lo stesso, spiegandogli che fuori dal confine che l’amico si è auto costruito esiste un mondo pieno di possibilità. Le parole di Pietro, per quanto piene di buoni propositi, finiscono però per perdere la loro carica positiva iniziale non appena il personaggio decide di stabilirsi in Nepal – zona, sì, molto lontana da Torino e da Graines, ma pur sempre in montagna. Quindi, così come l’amico, anche Pietro ritorna a questa dimensione di “volontario isolamento” che aveva conosciuto e sperimentato durante i primi soggiorni in montagna da bambino e, per quanto critichi le idee di Bruno, finisce per adattarsi in una realtà non molto distante da quella dell’amico. Pietro stesso arriva alla consapevolezza di aver scelto “un’altra Graines” come suo posto nel mondo, anche se distante migliaia di chilometri e prova a spiegare quello che sente all’amico Bruno raccontandogli la storia delle cosiddette “otto montagne“, quelle che, secondo una antica tradizione nepalese, dividono il mondo in otto parti e lo collegano in tutti i suoi punti, come a voler dimostrare che, nonostante la lontananza, il sentimento di amicizia che lega i due – ormai – uomini adulti è sempre vivo come in quei momenti in cui da bambini giocavano spensierati.
La pellicola diretta da Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch mostra quindi una minuta attenzione per ogni dettaglio, attenzione che non si esaurisce soltanto nel processo di adattamento da romanzo a film ma che si riflette in ogni aspetto della pellicola. Dalla fotografia, che parla allo spettatore cercando di immergerlo nella vastità della montagna, con zoom e allontanamenti sui personaggi che mostrano, in prospettiva, quanto piccolo sia l’uomo di fronte al paesaggio alla colonna sonora, realizzata dal compositore svedese Daniel Norgren, tutto contribuisce a rendere il film non solo scorrevole (nonostante le quasi due ore e mezzo di durata) ma anche terribilmente coinvolgente, in una storia che trascende luogo, tempo e spazio e che nel momento in cui lo spettatore esce dal cinema sente già come un classico.