Three Thousand Years of Longing recensione film di George Miller con Tilda Swinton, Idris Elba, Pia Thunderbolt, Berk Ozturk e Anthony Moisett
Il potere seduttivo del racconto
È uno strano film Three Thousand Years of Longing, anche considerando quanto il suo regista George Miller sia sempre stato poliedrico nel muoversi tra generi filmici, incline a dare brusche, inaspettate sterzate alla sua carriera, a disattendere le aspettative, senza mai perdere il suo tocco unico. Il miglior complimento che gli si possa fare alla luce di un film bizzarro e solo parzialmente riuscito è che probabilmente solo lui avrebbe potuto far funzionare questa versione contemporanea, teneramente sensuale e un po’ weird dei racconti de Le mille e una notte.
Improbabile Sherazade della situazione è un Idris Elba nei panni di un genio con le punte delle dita dorate e il pizzetto arancione. A liberare questo djinn è il personaggio di Tilda Swinton, una narratologa che si è costruita una storia tutta per sé, sicura, stabile e senza sorprese. Alithea Binnie è una stimata professionista che si è creata una vita a misura della sua solitudine: non ha più un uomo accanto a sé e non ne sente il bisogno. Conduce un’esistenza abbastanza agiata, fa un lavoro che ama, non ha tribolazioni. Inoltre di lavoro conosce i miti e le storie che per millenni le persone si sono tramandate e raccontate oralmente e per iscritto, per mettersi in guardia su quanto desiderare qualcosa possa portare a conseguenze nefaste.
Un vero incubo per il suo genio, uno spirito che si proclama uno sciocco che per amore si è fatto rinchiudere più volte in bottiglie e lampade, ma che trasmette da subito l’aura del seduttore. Alithea non sembra avere desideri e anzi, è acutamente consapevole del rischio distruttivo che il desiderio ha sulla vita di chi lo esprime. Per convincerla a esprimere tre desideri e liberarlo dalla sua prigionia, il djinn dovrà usare l’unica moneta di scambio che ha a sua disposizione: le storie, le sue storie di genio al fianco di donne che a differenza di Alithea non hanno esitato ad esprimere desideri e a volere accanto a sé uomini spesso inarrivabili.
Non è più tempo di storie, uccise dalla scienza
Miller non poteva fare film più di rottura rispetto all’osannatissimo Mad Max: Fury Road. Three Thousand Years of Longing è un film statico e verbosissimo, completamente privo d’azione, in cui per buona parte del tempo i protagonisti si muovono in una piccola stanza di un albergo di lusso in Istanbul, sgranocchiando pistacchi vestiti solo di un accappatoio bianco. Eppure è proprio questa la parte migliore del film, in cui due star come Swinton e Elba cominciano questo lento gioco di avvicinamento e seduzione, raccontando all’altro se stessi attraverso storie la cui veridicità rimane dubbia, aggiungendo un ulteriore velo nella complessa elaborazione della distanza che li separa. Se vi siete mai ritrovati a parlare con uno sconosciuto per ore, stupendovi di quanto d’intimo e personale vi siete trovati a rivelargli proprio protetti da quell’anonimato reciproco, capirete alla perfezione l’allure molto peculiare di questo titolo.
I fan del Miller più adrenalinico invece si sentiranno più a casa nelle tre storie nella storia raccontate dal djinn, tutte di chiaro sapore e ispirazione mediorientale, tutte assolutamente al femminile. La regina di Saba, un’ingenua concubina innamorata di un principe e una sposa ragazzina amante della matematica sono le tre donne attraverso cui il djinn cerca di convincere Alithea a cedere e desiderare qualcosa. Dal punto di vista visivo, qui ritroviamo molto più il Miller madmaxiano, ma come ogni storia con dentro una morale (per giunta dal minutaggio ridotto) queste tre parentesi sanno in parte di costruito, sono prive di sentimento. A tenere in piedi un film con tanti elementi che faticano a convivere insieme esaltandosi l’un l’altro è la chimica che si sviluppa tra l’improbabile eppure efficace duo protagonista. A far funzionare la coppia e la storia è ovviamente Miller, che riesce a rendere il tutto romantico e sensuale, anche se non del tutto privo di qualche intoppo.
Dentro Three Thousand Years of Longing c’è anche molto, molto rimpianto. Quello di un uomo energetico e vitale come Miller che vede come il suo djinn il mondo svuotarsi di storie importanti da raccontare, di bugie in cui credere, soppiantate da una tecnologia miracolosa ma senza meraviglia dentro, frastornante.
C’è un desiderio non confessato ma tuttavia evidente in Three Thousand Years of Longing che tradisce l’età e l’esperienza di George Miller. Quello dei suoi protagonisti di fuggire da una realtà che nel film è tanto tirata a lucido quanto finta, per rifugiarsi entro le proprie mura, in piccoli spazi casalinghi e solitari in cui tornare ad essere se stessi e godere delle storie che si amano di più.