Sanctuary recensione film di Zachary Wigon con Margaret Qualley e Christopher Abbott presentato alla Festa del Cinema di Roma 2022
Folle, irrefrenabile, intenso e anche adrenalinico, il tutto girato in un’unica stanza d’hotel. Zachary Wigon ha portato alla diciassettesima edizione della Festa del Cinema di Roma, un thriller in grado di mettere a nudo le perversioni che si nascondono dietro le belle facciate. Sanctuary arriva e dissacra il rapporto sentimentale tingendolo di folle ossessione e di kick in grado di spogliare i suoi personaggi, più di quanto non possa fare il sesso.
All’interno di una stanza, al 46° piano di un hotel di lusso, Hal Porterfield (Christopher Abbott) si concede dei misteriosi incontri con la bella Rebecca (Margaret Qualley). Lui, ricco ereditiere di una catena d’alberghi; lei, dominatrice per professione intenta ad appagare ogni desiderio umano. Nessun tocco, né un rapporto fisico si consuma tra i due, ma mentale. E tessera dopo tessera, dialogo dopo dialogo, emerge un quadro ben dettagliato di due personalità che coinvolgono totalmente lo spettatore.
Pensare di fare un film intero solo su una coppia chiusa all’interno delle pareti di una stanza, è decisamente una sfida. Soprattutto, quando questa si veste di tutte le dinamiche del thriller. Ogni volta che la porta di quella camera si apre, si è quasi spinti a trattenere il fiato per vedere la piega che prenderanno gli eventi. Nulla è scontato, banale, atteso: al contrario, assistiamo a continui twist che si susseguono nella rapidità di pochi attimi. Basta un primo piano per poter quasi leggere, negli occhi di Rebecca o in quelli di Hal, l’intero flusso di pensieri che li assale. Wigon gioca con le inquadrature, ribalta la scena, colora lo schermo e suggerisce allo spettatore cosa stanno provando i suoi personaggi attraverso i vari elementi inseriti nella diegesi. Riuscendo, così, nell’intento principale: quello di coinvolgere tanto il pubblico nella visione da desiderarne ancora.
Sanctuary – che cos’è l’amore se non un gioco di potere?
Sanctuary è tutto costruito come un gioco di potere, ma del resto cos’è l’amore se non un continuo scendere a compromessi? E il compromesso arriva, dopo aver stabilito i ruoli che entrambi si sono cuciti addosso. Rebecca, anche grazie all’interpretazione di Margaret Qualley, controlla e possiede totalmente la volontà di Hal. Nonostante i suoi tentativi, Hal, a sua volta, non è in grado di non riconoscere quanto ascendente la donna abbia su di lui. Li conosciamo perché l’uno punta a metter a nudo l’altro. Cercano di giocare ogni singola carta del loro strano rapporto per poter riuscire a svelare e sviscerare la vigliaccheria dell’altro. Attraverso la dominazione e la sottomissione, i due protagonisti trovano il modo di entrare vicendevolmente nelle rispettive teste. Perché conoscere le perversioni di un individuo, del resto, non fa altro che inquadrare la parte più oscura dello stesso. È quasi, come abbiamo voluto sottolineare, se loro fossero ancor più nudi di quando il loro contratto prende il via.
Nel momento in cui Hal annuncia di voler interrompere la loro relazione, tutto prende, però, una piega diversa: Rebecca non vuole smettere di giocare. E se, in un primo momento, possiamo pensare che sia per via di un fattore di guadagno, successivamente, si comprende quanto questo non sia vero. Il climax che segue, insieme alla follia dei protagonisti, li fa quasi sembrare una coppia sul procinto di un divorzio. Viene portata in scena la stessa furia che si lanciano addosso i protagonisti de La guerra dei Roses, e sembrerà davvero di assistere a una lotta all’ultimo sangue.
Quella singola camera d’hotel diventa, così, un mondo nella quale si abbandonano le maschere e i due possono mostrare il peggio di loro stessi, ma anche la parte più vera.