Cento domeniche recensione film di Antonio Albanese con Liliana Bottone, Bebo Storti, Sandra Ceccarelli, Maurizio Donadoni e Giulia Lazzarini
Cento domeniche ha un grosso problema: è un film necessario.
Parla di un uomo che vede andare i fumo i risparmi di una vita passata in fabbrica in seguito a un crac finanziario della banca di fiducia proprio nel momento in cui quei soldi gli avrebbero permesso di realizzare il sogno più grande della sua vita: organizzare il matrimonio dell’amata figlia.
Una situazione che si sporca lentamente fino ad un’opacità totale, toccando argomenti di attualità che risuonano di tanta cronaca strillata sui media, per poi essere dimenticati.
Potrebbe essere il soggetto di un film di Ken Loach o l’inizio di un heist movie con protagoniste persone rimaste senza più nulla e costrette ad azioni eclatanti – gli esempi sono tanti ma considerando il crac finanziario c’è un’affinità con Criminali come noi – si tratta invece del quinto lungometraggio di Antonio Albanese, il primo inquadrato nel genere drammatico.
Un’apparente sorpresa, solo perché si fa presto a dire Cetto La Qualunque quando si a che fare con l’attore lombardo. D’altronde a scrivere il film c’è proprio quel Piero Guerrera che ha contribuito alla sceneggiatura dei film su uno dei politici così famoso da non essere vero.
C’è un filo rosso, però, che unisce idealmente due prodotti apparentemente inconciliabili.
Lo sguardo di Albanese si volge ad Antonio Riva e agli ultimi per far toccare con mani e cuore quello che i proclami e i giochi dei potenti impongono violentemente. Che si tratti di Cetto o di un manager bancario, la questione rimane sempre la fiducia che viene riposta nei decisori politici ed economici che viene disattesa, prima o poi.
Lo sforzo di Cento domeniche è quello di rimanere onesti su un dramma globale, vista la capillare diffusione in Italia e nel mondo. Albanese guarda al piatto dove ha mangiato da bambino per farsi portavoce delle vittime di speculazioni, sfruttando quella faccia buona costruita lungo tutta la sua carriera per tirare dentro il pubblico e poi mandarlo in cortocircuito.
Un atto coraggioso e sicuramente nobile, che valica gli aspetti prettamente tecnici e cinematografici per lasciare in primo piano un tema drammatico e mai così urgente.
Il risultato è convincente a metà. Vincono il dolore e la rabbia, perdono la costruzione e la tensione un po’ affettata nel tentativo di rincorrere la drammaticità della realtà.
Risalta lo studio e la ricerca della realtà per radicare la crisi e non renderla un esercizio di stile, ma si nota come la consapevolezza di ciò che successo in situazioni analoghe pesi nella fluidità della narrazione, preferendo la denuncia alla sceneggiatura in sé e per sé.
Onore al merito, ma sarebbe servito un tradimento – non la spettacolarizzazione – per rendere davvero giustizia cinematografica ad una causa silente.