Imaginary recensione film di Jeff Wadlow con DeWanda Wise, Pyper Braun, Tom Payne, Betty Buckley e Veronica Falcòn
Se c’è una qualità che non si può negare a chi lavora nella Blumhouse Productions è la capacità di scegliere i soggetti giusti. Spesso le idee di base possono sembrare sciocche ma nascondono delle intuizioni più intelligenti di quanto appaiano.
Imaginary non fa eccezione. A prima vista sembra la classica storia del giocattolo demoniaco (un orsacchiotto di nome Teddy) che perseguita i malcapitati di turno, eppure sotto la superficie c’è di più.
Il peluche malefico piomba nella vita della scrittrice Jessica (DeWanda Wise) che si è trasferita nella propria casa di infanzia col compagno e le due figliastre. L’influenza negativa che Teddy manifesta su Alice, la sorella minore, sarà un’occasione per far riemergere e affrontare i traumi del passato, sia delle bambine sia della loro nuova matrigna.
Appare quindi chiara la volontà di sfruttare il demone di turno per costruire un’analisi psicologica dei personaggi, abbellendo il tutto con una spruzzata di sovrannaturale di stampo fiabesco che diventa preponderante nel climax finale. Tanto il tema del trauma infantile quanto la fusione con la fiaba sono tratti estremamente ricorrenti nell’horror contemporaneo, dai due IT di Muschietti a Oculus di Flanaghan. Anche il filone del giocattolo maligno sta trovando nuova linfa grazie a progetti come M3gan e Five Nights at Freddy’s, anch’essi prodotti da Blumhouse e non a caso citati nel poster del film.
Alla guida del progetto troviamo una vecchia conoscenza della casa di produzione, ovvero Jeff Wadlow, già dietro la macchina da presa di Obbligo o verità e Fantasy Island. Due film che condividono molto col loro nuovo “fratellino”: partono da un soggetto intrigante per poi arenarsi malamente.
Wadlow dimostra, come già fatto nei film sopracitati, di essere privo della benché minima inventiva, limitandosi a riprendere ogni singolo cliché horror, ormai indigesto anche per i fan più duri e puri.
La prima ora è un continuo ripetersi del classico repertorio: jump scare poco spaventosi, tentativi fiacchi di creare un’atmosfera lugubre ricorrendo a location scarsamente illuminate (viene da chiedersi che problemi abbiano i protagonisti degli horror nel pagare le bollette della luce) e scene in cui l’entità si avvicina minacciosamente a qualche potenziale vittima per poi sparire nel nulla un attimo prima di afferrarla. Sembra che i mostri dell’horror contemporaneo soffrano di una qualche ansia da prestazione che impedisce loro di colpire fisicamente quelli che terrorizzano.
Anche il modo in cui la storia viene portata avanti risulta piuttosto zoppicante, con l’aggiunta di un paio di piccoli colpi di scena abbastanza fini a sé stessi nella parte finale. Non aiuta certo la recitazione del cast, dato che tutti gli attori appaiono un po’ spaesati sul set.
Il risultato finale è un film incapace di sfruttare gli ottimi spunti offerti dal soggetto, diventando così un generico horror sorretto unicamente da una colonna sonora abbastanza efficace, ma che da sola non può certo portare il risultato a casa.