The Seed of the Sacred Fig recensione film di Mohammad Rasoulof con Soheila Golestani, Missagh Zareh, Mahsa Rostami e Setareh Maleki
The Seed of the Sacred Fig: il cinema frutto maledetto del regime iraniano
Quanta della potenza del cinema iraniano germoglia dalla violenza del regime in cui nasce? Quanta della sua creatività è il frutto maledetto di una situazione in cui registi come Mohammad Rasoulof e Jafar Panahi devono girare in clandestinità, rischiando l’arresto a causa dei loro film, contrabbandando le loro pellicole alla frontiera per raggiungere i Festival dove poi vengono premiate?
È un pensiero egoista, quasi meschino da fare, al riparo dagli orrori di Teheran e dintorni. Eppure non abbiamo potuto fare a meno di pensare a quanto la forza narrativa ed espressiva di The Seed of the Sacred Fig sia figlia del passato recente, anzi, recentissimo del paese. Il film è quasi un commentario sull’Iran di oggi, sul regime iraniano cambiato dalla morte di Mahsa Amini. Il film si apre quando la notizia dell’arresto e della morte della giovane raggiunge i telegiornali iraniani, che minimizzano il fatto. È punteggiato da video in verticale rubati durante le proteste, frammenti documentaristici che raccontano la crudezza della risposta della polizia di stato e religiosa alle proteste che quella morte ha fatto scoppiare in tutto il paese.
Dal nazionale al familiare: il lungo zoom di Mohammad Rasoulof su una famiglia iraniana
La morte di Mahsa è un evento di rilevanza nazionale che pian piano tinge a tinte fosche gli equilibri di una realtà familiare di cui vacilla l’equilibrio. Ci ritroviamo nella dimensione più identitaria del cinema iraniano, quella che ogni grande regista di questa nazione sembra maneggiare con incredibile facilità ad altissimo livello. Quella di cui è un grande maestro Asghar Farhadi e di cui Mohammad Rasoulof è ottimo utilizzatore. Un avvenimento apparentemente di poco conto – la scomparsa di una pistola da un cassetto del comodino del padre – viene continuamente ricostruito dai quattro membri della famiglia (lui, la moglie, le due figlie adolescenti), facendo affiorare la solita verità sugli esseri umani, sui consanguinei. Nessuno è davvero innocente, nessuno si è davvero astenuto dal mentire.
Il padre di famiglia è sotto pressione. Dopo anni di gavetta è appena diventato investigatore per conto della polizia religiosa. Una promozione e un ruolo di responsabilità, che esigono che la sua famiglia sia irreprensibile. La moglie oscilla tra l’obbedienza assoluta al marito e l’amore per le figlie che, cellulari alla mano, rimangono sconvolte dallo scollamento tra telegiornali e video visti sui social, grazie ai VPN.
La pistola scompare dal cassetto e tutto precipita. Sempre che nel cassetto ci sia mai arrivata, considerando che il protagonista maschile del film ha già dimostrato di non ricordare esattamente dove fosse. Una delle tre donne ha davvero preso l’arma? Perché? Siamo all’oscuro quanto i personaggi per gran parte del film, la cui durata considerevole permette di tenere coperte le carte a lungo, incalzandoci poi nel finale in un crescendo di rivelazioni spiazzanti, perché il punto non è chi ha preso la pistola, se qualcuno lo ha fatto, ma il dramma che questa crisi familiare scatena. Quello che, nello sviluppo finale, racconta ancora una volta la pervasività del regime sulle vite di chi lo ha perpetrato per anni, la fragilità di un legame affettivo di fronte al bisogno di stabilire il proprio potere sugli altri.
Il fico sacro come metafora della ribellione femminile
Il titolo, The Seed of the Sacred Fig, fa riferimento a un albero i cui semi crescono soffocando progressivamente l’albero ospite su cui s’innesta. È un’immagine botanica sublime e terribile di che impatto abbia davvero vivere in un regime sulla vita di di chi lo abita, di chi viene plasmato da quelle logiche. Lo è anche perché Mohammad Rasoulof ci presenta l’uomo che sarà poi preda della paranoia come una persona timorata di Dio, che fatica a dormire quando capisce che la sua promozione si traduce nella necessità di obbedire agli ordini e non di perpertrare la giustizia.
C’è un’immagine ricorrente nel film, che ne è un po’ la summa. Nel corridoio degli uffici amministrativi in cui lavora il protagonista maschile ci sono delle sagome cartonate di alcuni esponenti del regime: militari, figure religiose, burocrati. Questi cartonati, di dimensioni realistiche, stazionano fuori dalle porte degli uffici. Talvolta ci sono persone in carne e ossa davanti a quelle stesse porte, le cui sagome si fondono a quelle di cartone. Ogni sagoma ha la mano sul petto; un gesto di cui una vecchia foto, a fine film ci rivelerà il senso più profondo, sinistro.
Il lungometraggio di Mohammad Rasoulof è questo: il distinguere progressivamente la sagoma pubblica dei quattro protagonisti dalla figura in carne e ossa, dalla persona che ci sta dietro, realizzando come bene e male siano intersecati nei loro animi. È un film ottimamente recitato, visivamente splendido, con una lunghissima scena finale ambientata tra le rovine che mai sospetteremmo essere stata girata, come il resto, in semi clandestinità.
The Seed of the Sacred Fig è un film in cui il germe della ribellione femminile attecchisce su un terreno che si sarebbe potuto dire scarsamente ricettivo. Invece prima le figlie e poi la madre vedono attraverso il bluff del padre, capiscono il legame profondo tra quei video clandestini e la paranoia paterna per la pistola scomparsa. Esattamente quanto avvenuto per la morte di Mahsa, diventata per ciascun manifestante un fatto intrinsecamente personale. L’unico limite dell’opera di Mohammad Rasoulof è che si prende tutto il tempo per mettere radici prima di germogliare. Manca la sintesi asciutta di Farhadi, la sua essenzialità.