Giurato numero 2 recensione film di Clint Eastwood con Nicholas Hoult, Toni Colette, J.K. Simmons, Chris Messina, Kiefer Sutherland, Gabriel Basso, Zoey Deutch
Chissà perché Clint Eastwood ha scelto il Giurato numero 2 per riflettere, ancora una volta, sul sistema giudiziario statunitense. Forse sarebbe stato troppo ingombrante tirare in ballo il celebre numero 8 interpretato con silenziosa dignità da Henry Fonda ne La parola ai giurati di Sidney Lumet. Tuttavia è difficile non guardare a uno dei legal-thriller per antonomasia per esprimere un giudizio sull’ultimo miglio nella carriera di uno degli attori e registi più iconici dell’industria hollywoodiana.
Siamo ancora una volta dall’altro lato della sbarra, in quel gruppo volutamente non omogeneo di dodici persone selezionate per decidere le sorti di un uomo (Gabriel Basso) accusato dell’omicidio della sua ragazza con prove, apparentemente a senso unico, della sua colpevolezza. Come nel film del 1957, da una situazione che sembra lapalissiana e schiacciante emerge un bastian contrario (Nicholas Hoult) che insinua un ragionevole dubbio, non soltanto per un’etica rigorosa ma soprattutto per un coinvolgimento personale che si svela e aleggia lungo tutto il film.
L’interesse che ha portato Eastwood a scegliere lo script di Jonathan Abrams nasce dall’esigenza di offrire un punto di vista schietto su un sistema che, pur non funzionando sempre come dovrebbe, è comunque considerato il migliore possibile; ad eccezione di tutti gli altri, avrebbe aggiunto Winston Churchill mostrandone criticità e meriti senza troppi fronzoli.
Questa riflessione non si costruisce solo a livello filosofico, con una tesi scontata, ma scegliendo un percorso cinematografico e una scelta narrativa che richiama a Mystic River nella costruzione della tensione emotiva che trova il suo climax magnificamente in un finale che, con semplicità e precisione, ricorda qual è il compito di un buon film con una buona storia: lasciare un ragionevole dubbio negli occhi e nella mente di chi guarda.