Babygirl recensione film di Halina Reijn con Nicole Kidman, Harris Dickinson, Sophie Wilde e Antonio Banderas
In alto i bicchieri (di latte), un brindisi al potere provocatorio di un ragazzo verso la sua Babygirl. La brava bambina si chiama Nicole Kidman e ubbidisce agli ordini di un fascinoso Harris Dickinson.
La fantasia libidinosa di Romy (Nicole Kidman) si accende con un gesto innocente eppure così oscuro. Più lei sopprime i demoni perversi dentro di sé, più il pericolo aumenta, più si spinge oltre i limiti per saziare la sua fame, sete, sopraffazione. Un istinto godurioso, latente, ancestrale che ha bisogno di essere soddisfatto.
In poche parole: più è proibito, più grande è il desiderio di abbandono completo che spinge a quella pulsione esigente. Anche se danneggia la carriera professionale, la vita quotidiana e la propria immagine.
E se questa esplosione emotiva fosse liberatoria? Se fosse un modo per affrontare meglio la routine? Nessun problema: la Babygirl, Mrs Kidman, ne esce pulita e indenne.
Sembra il prologo di Cinquanta sfumature di Grigio (Sam Taylor-Johnson, 2015) con lo sguardo magnetico di Christian Grey (Jamie Dornan) che lascia spazio al brivido caldo di Romy. Anche lei ‒ è un caso? ‒ si muove ai piani alti di una multinazionale, questa volta specializzata in robotica e intelligenza artificiale, un mondo dove l’apparenza conta: lifting, trucco e parrucco di donne in carriera. L’arrivo di Samuel (Harris Dickinson), stagista bello e giovane dall’aria tutt’altro che inesperta, accende il desiderio e la mente di Romy. Sale e pepe aggiunti un pizzico alla volta man mano che i respiri aumentano, che i due corpi che si incontrano; calamite di poli opposti che si attraggono nel loro istinto primordiale, senza mostrare chissà quanto.
Ecco che le Cinquanta sfumature diventano 9 settimane e mezzo (Adrian Lyne, 1986), con ordini imposti da un uomo che pretende il rispetto senza alcun tipo di esitazione. Un gioco di piacere corporeo, valvola di sfogo rimasta a lungo sepolta dentro di lei, ora finalmente libera da ogni pregiudizio.
Tuttavia, Christian Grey che John Gray ‒ sì, proprio lui, il sex symbol più desiderato degli anni d’oro Mickey Rourke ‒ erano uomini a cui piaceva dominare la donna.
In Babygirl è il contrario: la donna comanda, l’uomo si trasforma nell’oggetto sui cui sfogare la propria frustrazione perversa. L’uomo da dominatore diventa sottomesso. Il potere è tutto femminile e Romy ne esce illesa: è un’altra donna a tenerla in pugno, non un uomo. Halina Reijn si conferma l’autrice che esplora la natura proibitiva di una donna che affronta tutte le forze opposte che combattono dentro di lei ‒ Instinct (2019) ne è la prova.
Allora che cos’è Babygirl? Un film politico femminista che affida il potere della risolutezza esclusivamente alla donna perché il femminismo è la libertà di esplorare la vulnerabilità, l’amore, la vergogna, la rabbia e la bestia interiore di una donna. Parola della regista Halina Reijn.
Siamo d’accordo, peccato solo che Babygirl sia femminista in maniera esagerata, nella sua dose di fine interdetta sulla passione amorosa del povero marito Jacob (Antonio Banderas), e sul potere assoluto della società odierna. Magari per una donna davvero così semplice…