La città proibita recensione film di Gabriele Mainetti con Enrico Borello, Yaxi Liu, Marco Giallini e Sabrina Ferilli [Anteprima]
Una provincia cinese sperduta tra le montagne ospita ancora le tradizionali abitazioni con un susseguirsi di antiche pagoda e un padre insegna alle due figlie l’arte del kung fu.
Milioni di film hanno avuto un inizio simile, pronti a raccontare la storia di una ragazza che si rivelerà un portento delle arti marziali, ma veniamo subito spiazzati dal cambio di location vent’anni dopo: Roma. O meglio, il famoso Rione Esquilino, in cui diverse culture si incontrano e vari migranti si scontrano con il razzismo degli anziani romani.
L’inizio del film di Mainetti è estremamente suggestivo, suggerendoci, come l’aveva già fatto con Lo chiamavano Jeeg Robot, che un film di pura azione può partire da riflessioni sociali e non deve sacrificare l’atmosfera.
L’esquilino di Mainetti è infatti colorato, denso di persone e, forse, un po’ troppo utopisticamente integrato. Il ristorante di Wang (Shanshan Chunyu) è un’enorme struttura in rosso, che riprende il classico stile tradizionale e fumettistico delle antiche pagode cinesi. Proprio lì, inizia la storia di Mei (Yaxi Liu) alla ricerca di sua sorella. La ragazza lavorava in quell’enorme struttura presieduta dalla mafia cinese di Wang, che oltre al ristorante, accoglieva postriboli e centri massaggi. Quando Mei scopre che la sorella è scappata con un certo Alfredo (Luca Zingaretti), la sua storia va a scontrarsi con Marcello (Enrico Borello), il figlio di Alfredo, cuoco nel ristorante di famiglia.
Uno scontro-incontro fatto di necessità e rabbia per quei due che nella fuga della sorella e del padre vedevano solo il tradimento e la vergogna. Il setting relazionale è molto buono e il film sarebbe destinato a decollare verso un prevedibile, ma piacevole, innamoramento dei due giovani, Mei e Marcello. Tuttavia, la bravura registica di Mainetti si dilunga in emozionanti scene di combattimento, così fantasiose da ricordare quel videogioco che ha fatto la sua fama nel modo creativo di uccidere, e nel filmare la lenta vita di Marcello.
Il ragazzo è intrappolato in un lavoro che non gli piace e in un rapporto un po’ morboso con la madre (Sabrina Ferilli); tuttavia queste sono le uniche informazioni che abbiamo su di lui. Il suo personaggio rimane bloccato nel ripetere delle frasi in romanesco per far divertire il pubblico diventando, suo malgrado, una macchietta. La stessa fine a cui è destinata l’altra protagonista: Mei. La perdiamo di vista, perdendoci i passaggi della sua indagine e delle sue motivazioni; questo si risolve con lunghi monologhi verso la fine del film che rallentano inevitabilmente il ritmo e non aggiungono nulla di nuovo.
I due, non conoscendosi e non capendosi, iniziano una relazione che non riesce a muovere emozioni, nonostante il bellissimo richiamo a Vacanze romane e l’interpretazione sciolta e naturale dei due giovani attori.
Anche il filone thriller inizia a perdere la sua carica iniziale. L’evento che li aveva spinti a unirsi e a cercare vendetta, sembra perdere di importanza a tratti e riacquistarla per allietarci con le bellissime scene di lotta. Su questo sfondo, l’Esquilino inizia a sbiadire e, troppo spesso, l’autore abbandona il realismo delle azioni e dei luoghi a favore di una riuscitissima resa cinematografica. Di conseguenza, i personaggi appaiono come vuote pedine di un gioco più ampio, privati di qualsiasi residuo di aspetto umano.
Anche la critica sociale, paventata con quell’inizio così forte, svanisce in una riconferma di pregiudizi e insulti razzisti, che quasi mai vengono corretti. I personaggi e i luoghi si dissolvono in una visione troppo superficiale, anche per un film di azione, lasciando sullo schermo delle bellissime immagini, un film godibile, ma troppi stereotipi che non vengono discussi e affrontati, lasciando una sensazione amara in bocca.
Nonostante Mainetti si riconfermi un ottimo regista che sa scegliere i suoi attori e il suo reparto tecnico, la scrittura, curata da lui stesso e da Stefano Bises e Davide Serino
avrebbe necessitato di più cura e approfondimento perché, nonostante sia un film d’azione, è comunque possibile avere personaggi tridimensionali e strizzare l’occhio all’aspetto sociale.