Arantxa Echevarría, con Carmen y Lola – il suo primo lungometraggio e vincitore del premio Goya 2019 come Miglior Opera Prima, – racconta una storia “gitana”, fresca e sensuale.
Periferia di Madrid. Carmen (Rosy Rodriguez) è un’adolescente e, come tutte le altre gitane, ha un unico e inequivocabile destino che si tramanda da generazione in generazione: sposarsi e crescere figli. Un giorno incontra Lola (Zaira Romero), una gitana diversa da tutte, che sogna di andare all’università e che teme di esprimere la sua omosessualità. Tra le ragazze scatta rapidamente l’amore e la complicità che si instaura tra le due le porta inevitabilmente ad essere ripudiate dalle proprie famiglie.
È emozionante vedere Carmen e Lola che rifiutano il ruolo predefinito imposto dalla tradizione, e che fuggono dal mondo in cui regna con indiscutibile naturalezza il maschilismo, un mondo in cui sognare è arduo se non impossibile; ma le due, pur attanagliate da una comprensibile paura, non hanno timore di sfidare le convenzioni e l’ira dei propri cari per seguire ciò che dettano loro il corpo ed il cuore.
È una storia di fantasia, ma con attrici talmente reali e brave da non sembrare nemmeno attrici. Carmen e Lola formano una squadra perfetta per trasmettere naturalezza, senso di ribellione ed eccitazione senza artifici.
La Echevarría va dritta, non chiede permesso, non chiede scusa e non giudica. Non è questo il suo intento. Descrive invece con grande sensibilità l’universo gitano, con la chiara intenzione di voler rappresentare la fotografia di uno stato sociale e culturale. Ed è in questo gesto politico – perché politicamente scorretto – che la sua proposta diventa forte. Improvvisamente tutto acquista un insolito significato: il senso del nuovo. Il vecchio mito dello zingaro viene raccontato ma al contrario, rivelando il suo potere, il suo fascino, e, in ciascuna delle sue contraddizioni, le sue miserie.
C’è qualcosa di accattivante in Carmen y Lola, un piccolo grande film, umile e onesto, che esige libertà senza bisogno di strillarla, anzi lo fa con garbo ed estrema dolcezza. Con un finale che lascia aperta la porta della speranza senza dimenticare il dramma, che (s)fortunatamente offe uno spunto sul quale vale la pena di riflettere, indipendentemente dalla razza o dalla condizione economica e culturale di ciascuno di noi.
Omnia vincit amor. Anche, e soprattutto, le gabbie che ci vengono costruite intorno.
Gabriela