A Beloved Wife recensione film di Shin Adachi con Gaku Hamada, Asami Mizukawa, Chise Niitsu, Kaho e Eri Fuse presentato al Far East Film Festival 2020
Nella lingua giapponese esiste un termine, kakaa denka, che potrebbe tradursi in italiano con la frase: “moglie estremamente prepotente” – e Chika (Asami Mizukawa), la protagonista di A Beloved Wife di Shin Adachi, è veramente insopportabile.
Come in tantissimi film del panorama cinematografico giapponese che poi altro non sono che lo specchio della società stessa, porta avanti per inerzia un matrimonio con uno sceneggiatore sfigato e fallito, Gota (Gaku Hamada), continuamente sottomesso alle critiche e al disgusto della moglie nei suoi confronti e quando egli riuscirà a combinare un viaggio di lavoro nella Prefettura di Kagawa, nell’isola di Shikoku, per incontrare un’adolescente capace di fare spaghetti udon (specialità del posto) a velocità incredibile (ottimo materiale per la stesura di un copione), cercherà di convincere la moglie e la figlioletta ad andare con lui sia perché non sa guidare sia perché spera in una possibile riappacificazione di coppia, in modo tale da poter, finalmente, tornare a consumare dopo innumerevoli anni – è proprio così che infatti il film si apre, con quella che sembra essere una commedia su un giapponese che non fa sesso da tantissimo tempo e su come gli ormoni lo potrebbero portare a comportarsi da maniaco in gag esilaranti.
Ma il regista preferisce prendere un’altra strada e attraverso il MacGuffin dell’incontro con l’adolescente, crea invece un road movie familiare dove quasi nulla succede per davvero se non litigi su litigi, tentativi di fare l’amore andati a male, allontanamenti coniugali dove sullo sfondo si erge la figura di una piccola bimba che deve sorbire quello che non è l’ambiente più adatto per crescere – un padre e una madre frustrati che si amano e si odiano, rinfacciamenti gratuiti che infangano il passato, fiumi di alcool che sono specchio della società giapponese e al contempo sinonimo di problema psicologico.
Sentirsi con un’altra sembra essere la cosa migliore da fare, è così, infatti, che Gota cerca di calmare i suoi ormoni, ma il profondo amore per quella donna che in fin dei conti gli è sempre stato accanto (anche se per inerzia) gli fa tornare alla mente i bei momenti passati (in qualche flashback qua e là), quando addirittura si comprava le mutandine rosse per portargli fortuna e lo aiutava con la stesura al pc dei copioni da lui scritti a mano.
Più che una “moglie adorata”, Chika (Asami Mizukawa) è una moglie isterica, rappresentata il più delle volte in vena umoristica ma davvero in grado di spazientire lo spettatore e farsi chiedere se Gota sia un sant’uomo o semplicemente uno zerbino solo e insolvente.
Tratto da un romanzo parzialmente autobiografico del 2016 dello stesso regista, A Beloved Wife si dimostra una buona pellicola fiaccata tuttavia da lungaggini eccessive: sfianca lo spettatore che preferirebbe durasse almeno venti se non trenta minuti in meno, apre un possibile tradimento che non sa poi chiudere, include alcune gag giusto per spingere la narrazione e creare l’ennesimo alterco o il vero e proprio litigio, tralascia l’impatto emotivo o traumatico che il tutto creerebbe in qualsiasi bambino, e si conclude in un modo che non sembra poi così tanto coerente con qualche sequenza appena precedente al finale.
Come detto in apertura, di matrimoni giapponesi frustrati e senza speranza (forse), il cinema giapponese ne è veramente pieno e stavolta ci sentiamo di consigliarvi il grandissimo Tokyo Fist del maestro Shin’ya Tsukamoto, un film fuori di testa che ha a che vedere con la boxe e con le perversioni più profondo dell’animo umano. Se preferite invece un dramma coniugale ed esistenziale non c’è forse niente di meglio di Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman, che ha ovviamente ispirato il film Netflix Storia di un matrimonio (Marriage Story) di Noah Baumbach.