A dire il vero recensione film di Nicole Holofcener con Julia Louis-Dreyfus, Tobias Menzies e Arian Moayed
Mentre Woody Allen si accinge a concludere la propria carriera – a meno che il genio originario del Bronx non abbia anche trovato la ricetta della vita eterna – il suo cinema continua a irrorare le menti di molti autori e registi in piena attività.
Tra questi vi è certamente Nicole Holofcener, una regista e sceneggiatrice attiva dalla fine dello scorso secolo cresciuta a pane e Woody Allen. Il patrigno ha prodotto diverse pellicole di Allen, permettendo alla giovane Nicole di trascorrere molte giornate ad assistere alla rutilante macchina creativa orchestrata dal famoso regista. Un’influenza profonda, tanto nei temi, quanto nella forma con cui questi sono messi in scena.
Se si considera anche il fatto che entrambi siano nati a New York, ecco che quella crescente sensazione di déjà vu che si prova vedendo il film trova una diretta correlazione con il pregresso biografico e intellettuale dell’autrice newyorkese.
A dire il vero è ambientato nella grande mela, ovvero un contesto sociale che la regista sembra maneggiare con particolare disinvoltura, con particolare attenzione quelle dinamiche che caratterizzano l’upper class della città più europea degli Stati Uniti.Quella stessa New York, popolata da artisti e professionisti (dis)impegnati che spesso fanno da sfondo nei film di Allen, si manifesta con chiarezza nel nuovo film della Holofcener.
La macchina da presa si insinua nella vita di una scrittrice e di uno psicologo di mezza età, entrambi alle prese con la sfida più controversa e complessa dell’epoca contemporanea: evitare incomprensioni e il formarsi di profonde idiosincrasie nei confronti del proprio coniuge.
E’ così che va in scena un film apparentemente in pieno stile Allen, ma che di fatto adotta un registro interpretativo ben diverso da quello costantemente tagliente e sarcastico del piccolo uomo occhialuto. La Holofcener intraprende la strada della delicatezza, evidenziata soprattutto nella rappresentazione del rapporto tra i due protagonisti. Nonostante alcuni temi di indubbio fascino, le interazioni più stimolanti dal punto di vista drammaturgico sono quelle che i due coniugi intrattengono singolarmente con il resto del mondo. È proprio nello svolgersi delle loro vite da individui che si consuma il reale potenziale della narrazione.
Come spesso accade per autori nati e cresciuti a New York, il lavoro ricopre un ruolo centrale all’interno dei propri testi filmici, ed è proprio in questo terreno che il film conquista un fecondo contrasto drammaturgico. I dubbi di un terapeuta alle prese con la complessità di un mestiere fin troppo aleatorio si incrociano con le turbe di una scrittrice impaurita dall’ombra dell’indifferenza altrui, generando un cortocircuito nel rapporto di coppia.
È qui che entra in gioco il tema centrale della raffinata opera della regista e sceneggiatrice: le bugie. Un impianto narrativo che dalla delicatezza avrebbe rischiato di scivolare nell’inconsistenza si trasforma in un saggio audiovisivo sulla bugia, e su quanto questa possa o meno essere considerata “a fin di bene”.
Fino a che punto è lecito mentire ai propri cari per mitigare la durezza della realtà o di ciò che reputiamo tale? Quando una bugia bianca si trasforma in un inganno condiviso? È proprio qui che A dire il vero gioca con grazia ed efficacia la sua partita narrativa, risultando vincente grazie a una scrittura che torna ad essere delicata e non fragile.