A letto con Sartre recensione film di Samuel Benchetrit con François Damiens, Ramzy Bedia, Vanessa Paradis, Gustave Kervern, Joey Starr, Bouli Lanners, Valeria Bruni Tedeschi, Vincent Macaigne, Jules Benchetrit e Bruno Podalydès
Ci sono tanti tipi di amore. L’amore passionale, quello carnale, che ti divora, ti consuma, ti fa assaporare il piacere che si accende attraverso la scintilla dell’attrazione fisica. L’amore romantico, quello tra due innamorati corteggiati dalle loro amorevoli effusioni ignari del mondo circostante. E l’amore vagheggiato, filosofico, platonico, scritto su un pezzo di carta sul fluire di tenere parole dettate dal lato sentimentale che alberga dentro noi stessi. L’amor che move il sole e l’altre stelle, scriveva Dante Alighieri nella Divina Commedia.
E come ci insegna il verso 145 del Canto XXXIII del Paradiso nella letteratura, l’amore diventa il meccanismo del mondo e di tutta la vita. Lo sa bene il regista e scrittore francese Samuel Benchetrit e il cast ben assortito di nomi conosciuti nel cinéma français ‒ François Damiens (Jeff de Claerke), Vanessa Paradis (Suzanne) e Valeria Bruni Tedeschi (Katia), moglie del boss locale Jeff, brava qui a starsene ai margini di una storia piena d’amore. Sì, perché A letto con Sartre – Cette musique ne joue pour personne ‒ titolo originale di questa insolita commedia ironica presentata nella sezione Première al Festival di Cannes ‒ parla proprio di amore contemplato, (non) ricambiato, sospeso tra poesia, filosofia e teatro. Uomini disonesti che non hanno paura di macchiarsi le mani di sangue, la violenza fisica come loro alleata in una isolata città portuaria ma lusingati dall’idillico desiderio di amare che tocca perfino i cuori dei più duri del luogo.
E così, Jeff tenta di conquistare la giovanissima cassiera del supermercato scrivendole insolite poesie d’amore in versi alessandrini. Jésus (Joey Starr) e Poussin (Bouli Lanners), suoi scagnozzi, tra riferimenti spirituali-filosofici, le buone maniere rinnegate e ricatti pagati a fior di quattrini, aiutano ad organizzare la festa alla figlia del capo per parlare con il ragazzo che tanto le piace. E poi l’ingenuotto Jacky (Gustave Kervern) disposto a interpretare per amore uno spettacolo teatrale sulla vita sessuale dei filosofi esistenzialisti Sartre e Simone de Beauvoir dopo essersi innamorato dell’aspirante attrice Suzanne.
C’è chi pensa che l’amore sia una debolezza, chi una colpa, chi una passione destinata alla degenerazione. C’è chi medita sull’amore come liberazione, evasione, voglia di lasciarsi andare al fluttuare del dolce pàthos perché ci rende vivi, senza precipitare nella solerte routine. E c’è chi confessa che l’amore possa valicare le apparenze, che anche i più forti abbiano un loro lato sognatore che non vedono l’ora di scriverlo nero su bianco. Proprio come il regista de Il condominio dei cuori infranti (2015), che crede che l’amore e la scrittura siano il rimedio alla solitudine che guariscono con il loro potere terapeutico.
Un regista innamorato dell’idea dell’amore che ha saputo proiettare sul grande schermo ‒ seppur oscurando amaramente la bravura di Valeria Bruni Tedeschi che reclamava un ruolo di primo piano ‒ quel piccolo fiore poetico insito in ognuno di noi. Une petite fleur che nasce nel profondo, scava dentro la nobiltà d’animo e si inebria di quel dantesco «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende» per rammentare quanto l’amore chiuda gli occhi per un momento e si lasci invadere dai suoi brillanti colori onirici. I tanti colori del sentimento più puro che va oltre ogni pregiudizio. Ah l’amour, l’amour…