A Thousand Hours recensione film di Carl Moberg con Josefine Tvermoes, Niels Anders Manley, Alba August, Kenneth M. Christensen e Anna Asp
Alla Festa del Cinema di Roma non c’è spazio solo per gli eventi cinematografici più attesi dell’anno, magari in lizza per la corsa all’Oscar, ma anche per quei film che molto probabilmente non avranno un’ampia distribuzione in sala, passando per la maggior parte nel paese d’origine o nei circuiti più ristretti. Riprova di ciò è la confessione del regista di A Thousand Hours (in danese, Tusind Timer), Carl Moberg, che ha riferito a chi ha assistito alla proiezione stampa del fatto che probabilmente eravamo le prime persone a vedere il film sul grande schermo.
Questa pellicola, fortemente legata alla sua origine, tra il fiammingo e il mitteleuropeo, propone una storia semplice, a tratti banale. I protagonisti Anna (Josefine Tvermoes) e Thomas (Niels Anders Manley) si ritrovano a dover affrontare il lutto di un loro caro amico, nonché batterista della band nella quale suonano. Non sapendo bene come procedere dopo questa tragedia, si ritrovano a dividersi, nonostante una certa attrazione reciproca. Il film esamina o, meglio, assiste indifferente a questo processo di crescita e focalizzazione dei propri obiettivi, proponendo una traiettoria narrativa scoordinata e scissa, esattamente come le preoccupazioni e i dubbi dei due giovani.
Nonostante l’evidente natura indipendente, sottolineata da un regista polivalente, che si è destreggiato in modo un po’ claudicante anche nella scrittura, nel montaggio (forse il punto più debole dell’intera opera, sia a livello visivo che sonoro) e nella produzione, A Thousand Hours si dimostra un film intimo e genuino, che spinge sulle sensazioni e le parole non dette piuttosto che sull’accortezza tecnica e visiva.
Va detto, però, che per essere una pellicola incentrata sulla musica, questa non riesce mai veramente a spiccare, spesso interrotta e spezzata. Tuttavia, quella che può essere vista come una mancanza, può benissimo essere interpretata anche come lo specchio visuale della relazione tra i due protagonisti, la cui chimica su schermo irradia la scena, rendendo superfluo ogni sorta di imbellettamento tecnico.