Aguirre furore di Dio recensione film di Werner Herzog con Klaus Kinski, Helena Rojo, Del Negro, Ruy Guerra, Peter Berling e Cecilia Rivera
Ricorre quest’anno il 50esimo anniversario di un’opera straordinaria, una vera perla del cinema tedesco nonché uno dei più importanti e famosi film di Werner Herzog. Aguirre, furore di Dio è lontano dalla concezione di cinema classico che siamo abituati a vedere, è una vera odissea dove i conquistadores sono attratti dalla leggendaria città di El Dorado.
Il film narra una lunga serie di traversie, una spedizione di uomini che sogna di conquistare un intero territorio inesplorato, mistico, misterioso, pieno di insidie.
La natura fa il suo compito, si ribella al virus, ovvero gli stranieri conquistadores, facendo scorrere una serie di sfortune e tragedie, passando per perdite di uomini e zattere.
Aguirre, furore di Dio vira poi verso un delirio di uomini stanchi, affamati e in cerca di cibo, deviati dalle allucinazioni, così tanto da liberare l’unico cavallo che avevano, anch’esso in preda a deliri per il caldo e l’ambiente.
L’opera è di un’intrinseca natura documentaristica, un miscuglio di realtà e finzione come è abituato Werner Herzog nella scrittura dei suoi film, autore che più e più volte nella sua carriera ha avuto il merito di aver spinto all’eccesso la sua produzione cinematografica, lavorando spesso e volentieri in condizioni di lavoro estreme che fanno eco a quelle riprodotte nei suoi drammi storici. Herzog rende indiscutibilmente Aguirre, der Zorn Gottes una reale “spedizione cinematografica” nelle viscere più inospitali della Terra e tra le ombre più impenetrabili dell’inconscio umano.
Ma sin dall’incipit dell’opera il vero obiettivo della missione non è l’oro ma il potere, il coraggio di imporre la propria persona sugli eventi della storia, protendendosi in avanti senza alcuna cura per la propria carne per divenire leggenda immortale.
Movimenti di macchina circolari servono a Werner Herzog per scrutare gli sguardi dei personaggi persi e spenti, pieni di un vuoto infinito nel loro inconscio.
Per la maggior parte dei film di Herzog la vera linfa vitale e il tocco di classe è senza ombra di dubbio l’interpretazione unica e rara di Klaus Kinski, che in questa occasione si immedesima nella parte di un personaggio pazzo, schizoide, pieno di manie di protagonismo, arrivato addirittura ad elevarsi ad un dio.
Aguirre, furore di Dio ha una storia bizzarra anche per quanto riguarda il processo di lavorazione: partendo dalla sceneggiatura di Herzog, riscritta da quest’ultimo dopo averla gettata via dal pullman poiché un suo amico dopo una bevuta vomitò sopra il copione, passando poi al rapporto di amore e odio tra Herzog e Kinski. Fino alla macchina da presa usata per il film, che fu rubata da Herzog alla scuola di cinema di Monaco, con il regista che si giustificò affermando di averla presa “solo in prestito“.
Aguirre, furore di Dio è una delle opere più uniche del cinema di Herzog, non solo per le storie surreali successe prima della realizzazione del film, ma anche per la poetica del raggiungimento di un mondo leggendario, criticando il potere e l’avarizia attraverso un’opera che si immerge nella natura amazzonica in bilico tra la realtà e la fantasia.