Alcarràs – L’ultimo raccolto recensione film di Carla Simón con Jordi Pujol Dolcet, Anna Otin, Xènia Roset, Albert Bosch e Ainet Jounou
Dopo anni di lenta deriva è ritornato al suo porto il Bellaria Film Festival. Per la sua 40esima edizione ha deciso di rinnovarsi, rimettendo al centro il cinema indipendente italiano e gettando ponti con il panorama audiovisivo europeo. Da questa unione di intenti arriva nella serata di apertura Alcarràs, il nuovo film di Carla Simón. Pellicola con la quale la regista catalana ha vinto l’ambito Orso d’Oro all’ultima edizione della Berlinale, distribuito in Italia da I Wonder Pictures.
Non accade nulla, o per lo meno questo sembra apparire ad un primo sguardo. Lentamente ed inesorabilmente il film, però, si stratifica e rivela una inaspettata profondità; seguendo tante storie che si aggrovigliano in una meravigliosa matassa di vita. Persone legate da fili, da affetti familiari ma con età differenti, ognuna con il suo giusto spazio, ognuna con la possibilità di raccontarsi. Tutta la narrazione si svolge all’interno di una famiglia contadina, i Solé, nei terreni della piccola città di Alcarràs. Sono contadini da generazioni, il nonno iniziò per primo a lavorare i terreni lasciati in dono dalla ricca famiglia dei Pinyol, nessuna carta firmata però ne attesta lo scambio. Il giovane Pinyol è pronto a costruire parchi solari su questi campi, sfrattando la famiglia Solé che si ritrova a fare i conti con il suo ultimo raccolto; con il concreto rischio di trovarsi sia senza lavoro che senza casa.
Carla Simón pone domande, quesiti fondamentali e complessi, senza avere mai la presunzione di poter fornire risposte semplici. Lo scontro tra una attività tradizionale e vitale come l’agricoltura che si ritrova oramai a fronteggiare il progresso ecologico è alla base dell’opera. Una contrapposizione originale ed affascinante. Parte dalla terra, dai campi, prendendosi i tempi della natura che scandiscono inesorabili la vita di chi vi lavora e plasmano l’identità della persona. Perdendo la terra, si perde lentamente la propria storia ed è un malessere che si presenta lungo tutta la pellicola, in maniera più o meno evidente in tutti i membri dei Solé.
Figli che si sentono inascoltati, padri che somatizzano fisicamente l’angoscia ed il dolore per questa terra tremante, aziende pronte a sfruttare il lavoro contadino per il semplice profitto. Non è un film semplice, non dà e non vuole dare soluzione per fermare il progresso, anche i Solé ne sono consapevoli. A volte però, è possibile ricordare le proprie radici ed evitare che scompaiano per sempre, fermarsi e guardare ciò che si lascia inesorabilmente alle spalle.
Anche la famiglia di Simón era una famiglia contadina, che nel tempo si è allontanata dal mondo agricolo. La regista qui cerca di riportare sullo schermo i suoi ricordi per mantenerne viva una memoria. Grazie ad essi ricostruisce un’atmosfera agreste incredibilmente realistica, aiutata da un cast di attori non professionisti, appartenenti a famiglie contadine; perché certi gesti li riesce a trasmettere solo chi la terra l’ha lavorata e vissuta. Atmosfera aiutata anche dai bellissimi campi lunghi, che permettono di godere dei paesaggi brulli della Spagna.
Una regia matura, inaspettata per certi versi; visto che è solo il secondo lungometraggio della regista. Pochi dialoghi, essenziali come le inquadrature, le quali hanno un ampio spazio ed una importanza fondamentale per la narrazione. Proprio per questo ogni tanto il ritmo della pellicola rallenta, ma è perfettamente accettabile se letto nel contesto generale di ciò che vuol trasmettere il film. Quello che traspare certamente è un talento espressivo di altissimo valore.
Seguendo e lasciando ampio spazio a ciascun protagonista, si delinea una epopea familiare, estremamente dolce, particolare ed urgente. Un’opera sulla perdita delle tradizioni, sulla perdita della propria identità, una sfida continua che alla fine accomuna ciascuna vita.