American Night recensione film di Alessio Della Valle con Jonathan Rhys Meyers, Emile Hirsch, Paz Vega, Jeremy Piven, Fortunato Cerlino e Michael Madsen
Tra gli inafferrabili parametri utili a misurare la vitalità di un panorama cinematografico, c’è senza dubbio la possibilità per un autore di sognare in grande e, in Italia, questa possibilità è a dir poco rara e ostica. Alessio Della Valle, al suo esordio, si è facilmente guadagnato il nostro rispetto, grazie al coraggio dimostrato nella realizzazione di quel grande e complesso sogno che era American Night. Perché si, a prescindere dall’analisi che seguirà, regista e colleghi sono riusciti a mettere su schermo un ambizioso progetto, composto da un cast di livello, una minuziosa componente tecnica e una commistione di generi e parabole narrative al limite dell’utopia per un prodotto nostrano.
American Night non è soltanto il titolo del film, ma anche e soprattutto il nome del locale più significativo per la vicenda: a metà tra una galleria d’arte e una discoteca, l’American Night è il fulcro della vita mondana newyorkese, in cui critici, mercanti e artisti si incontrano per rendere collettivo uno stile di vita totalmente devoto all’arte. Sullo sfondo di una New York assetata di arte, a Della Valle basta l’incontro tra Frank Rubino (Emile Hirsch), uno spietato boss della malavita, e John Kaplan, il più talentuoso critico e falsario della città, per accendere la miccia di questo thriller dalle tinte neo-noir.
John Kaplan, interpretato da Jonathan Rhys Meyers, è il vero centro drammaturgico del lungometraggio e intorno alle sue scelte si definisce l’incedere della narrazione. Sarah (Paz Vega), compagna di John, è una rispettata restauratrice e curatrice di opere d’arte, grazie alla quale si delinea la raffinata divergenza tra l’approccio femminile e quello maschile. Alla genuina passione delle donne, si contrappone con prepotenza una perpetua ossessione tipicamente maschile, che a più riprese diviene un mezzo per la banale affermazione del proprio ego.
E’ proprio nell’espressione di una distorta passione per l’arte, che il film conosce i suoi momenti più alti e dispiace constatare come questo aspetto venga più volte messo in secondo piano, a favore di una scricchiolante componente action. Anche lo stesso John viene definito come la “rockstar della critica d’arte”, ma sono sporadici e brevi le sequenze in cui lo spettatore riesce a percepire la supposta devozione alla materia, che viene più volte soppiantata dall’espressione di un profondo tormento esistenziale. Al contrario, il villain interpretato da Emile Hirsch è rappresentato con efficacia nel suo disperato tentativo di estrinsecare i propri demoni, mediante la coincidenza di violenza e arte. Al centro del confronto tra i due vi è il furto della Marilyn Rosa di Andy Warhol, che diverrà presto l’oggetto del desiderio di molti, ma i dettagli sullo sviluppo della trama li lasciamo al buio della sala.
Strutturata in tre atti, la pellicola è un complesso puzzle da comporre sequenza dopo sequenza, colpo di scena dopo colpo di scena. Grazie ad un montaggio finemente lavorato, mettere insieme i pezzi regala una certa soddisfazione, anche al netto di qualche colpo di scena poco ispirato o dal sapore poco originale. American Night, infatti, prende a piene mani dai caposaldi del genere action–comedy, con espliciti riferimenti, di forma e contenuto, alle opere di Guy Ritchie e Quentin Tarantino. E’ scontato far notare che, seppur dotato di una preziosa cornice tecnica, il film fatica a raggiungere l’armonia visiva e contenutistica dei riferimenti sopracitati e, alla luce di un budget sensibilmente più limitato, avremmo apprezzato una componente action più asciutta, con la conseguente possibilità di dedicare uno screen time più generoso all’affascinante tema dell’arte contemporanea.