American Primeval

American Primeval recensione serie tv creata da Mark L. Smith [Netflix]

La nuova serie TV western disponibile su Netflix

American Primeval recensione serie tv creata da Mark L. Smith e diretta da Peter Berg con Taylor KitschBetty Gilpin Preston Mota [Netflix]

American Primeval (Credits: Netflix)
American Primeval (Credits: Netflix)

È dall’uscita di Gli Spietati che il genere western ha assunto una patina crepuscolare, cinica e realistica. La conquista della frontiera, un tempo rappresentata come un’avventura eroica, è stata privata di qualsivoglia leggerezza ed ingenuità. Gli Stati Uniti, infatti, stanno sempre più riflettendo sul proprio passato e le proprie origini. In tale contesto, la conquista del West non può più essere raccontata come una romantica impresa all’insegna del Manifesto Destino.

Disillusione, violenza e dolente realismo sono ciò che caratterizzano i pochi, sporadici, racconti western che sono approdati sugli schermi negli ultimi anni. Un esempio perfetto è The Revenant, che con la sua fotografia naturalistica e una messa in scena tanto elegante quanto viscerale proponeva un West spietato dove, alla fine, “siamo tutti selvaggi”.

A quasi dieci anni di distanza, Mark L. Smith, sceneggiatore del film di Alejandro Gonzalez Iñàrritu, torna su quegli stessi temi trasportandoci nello Utah del 1857, dov’è in atto la Guerra dello Utah, una disputa territoriale fra la Milizia Mormone del governatore Brigham Young (Kim Coates), gli indiani Shoshone e l’esercito statunitense. A farne le spese sono i coloni che vogliono attraversare il vasto territorio inesplorato per costruirsi un futuro migliore.

Tra di essi ci sono Sara (Betty Gilpin) e suo figlio Devin (Preston Mota), sui quali pende una grossa taglia. I due si affidano al burbero trapper Isaac (Taylor Kitsch) per uscire indenni dal duro viaggio che li aspetta.

La cosa più curiosa di American Primeval è vedere che alla cabina di regia c’è quel Peter Berg che ha legato il suo nome a film d’azione tanto tiepidi quanto efficienti. Tuttavia nella serie il regista non salta mai freneticamente da una scena all’altra, e non dà neppure un taglio troppo action al materiale narrativo. Riesce anche a dare il giusto peso alla natura, al paesaggio e agli ambienti che riempiono le sue inquadrature, lasciando il giusto spazio agli attori e regalando buoni momenti di intimità e di contemplazione.

Va detto che il debito verso lo stile visivo di The Revenant rasenta a volte lo scimmiottamento. Abbondante uso di camera a mano, elaborati piani sequenza e paesaggi lussureggianti la fanno da padrone. Non si raggiunge l’estetismo leggermente autocompiaciuto di Iñàrritu, ma solamente perché i tempi e i mezzi di produzione impediscono una tale magniloquenza.

American Primeval (Credits: Justin Lubin / Netflix)
American Primeval (Credits: Justin Lubin / Netflix)

Se dal punto di vista della messa in scena è quantomeno interessante vedere un western girato in modo un po’ più dinamico, dal punto di vista della scrittura American Primeval offre un buon ventaglio di personaggi, anche se non tutti vengono adeguatamente esplorati.

È il caso dell’indiana Due Lune (Shawnee Pourier) e di Abish (Saura Lightfoot Leon); personaggi che risultano dei meri strumenti per far avanzare la trama, visto che la serie sembra voler riscattare il ruolo della donna in un contesto nel quale è sempre stata relegata sullo sfondo.

Nonostante alcuni personaggi non lascino il segno che potrebbero, però, la serie fa il suo dovere nel raccontare una classica storia di frontiera. “Civiltà e civilizzazione sono due cose ben diverse” dice Jim Bridger (Shea Wingham), costruttore dell’unico avamposto ai limiti delle terre selvagge. Ai confini del mondo civilizzato, infatti, l’uomo si abbassa al livello dei lupi.

Per sopravvivere, le uniche opzioni sono la sopraffazione dell’altro e la creazione di un gruppo. Ma è proprio nella divisione fra gruppi che l’odio e la violenza trovano terreno fertile. Sara e suo figlio e i cacciatori di taglie che li inseguono, i Mormoni e l’esercito statunitense, gli Shoshone e l’uomo bianco: ognuno di questi gruppi contrapposto è un piccolo mondo capace delle peggiori atrocità pur di sopravvivere.

Tutti sono a un passo dal cedere ai più bassi istinti umani, anche quelli che sono convinti di essere i più civilizzati. Nessuno viene risparmiato da questo assunto, né i Mormoni, che nell’immaginario collettivo colleghiamo a ideali di pacifismo e fratellanza, ma neanche i nativi americani. Questi ultimi vengono sicuramente ritratti come più onorevoli dell’uomo bianco e vittime delle sue macchinazioni, ma la serie non cade mai nella trappola del mito del buon selvaggio, e li rappresenta in tutta la loro brutalità.

Nella frontiera vige la legge del più forte, e l’amore e la collaborazione possono portare qualche magro frutto, che però basta solo a sopravvivere qualche giorno in più. Non è uno sguardo del tutto inedito sul genere western, anzi, è perfettamente in linea con la tendenza che il genere sta seguendo da anni. È difficile che American Primeval venga ricordata come un tassello fondamentale della storia del western, ma rimane comunque una buona reiterazione dei canoni già esplorati.

American Primeval (Credits: Matt Kennedy / Netflix)
American Primeval (Credits: Matt Kennedy / Netflix)

Sintesi

Pur non essendo minimamente una serie di rottura rispetto al genere di appartenenza, né qualcosa che offre un inedito punto di vista sul Far West, American Primeval propone un’efficace storia di frontiera con personaggi ben caratterizzati e una messinscena abbastanza fresca.

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