Quinto lungometraggio di finzione di Julian Schnabel, At Eternity’s Gate segna il ritorno del regista e pittore al biopic dopo Basquiat. La sua scelta questa volta cade su Vincent Van Gogh, mai come in questo periodo soggetto molto gradito dalla settima arte. Difficile, quindi, affrontare un argomento così dibattuto andando a cogliere particolari inediti della vita del pittore.
Schnabel, proprio per questo motivo, decide di fare della sua versione non tanto un racconto biografico quanto un omaggio alla funzione eternatrice dell’arte e all’importanza del ruolo dell’artista. È un Van Gogh alla ricerca del consenso quello magnificamente interpretato da Willem Dafoe, da sempre a suo agio nel vestire i panni di personaggi iconici e tormentati.
Schnabel lo segue da vicino, spesso sposa il punto di vista del pittore attraverso le soggettive che sono il suo marchio di fabbrica e si sofferma sui rapporti che hanno caratterizzato la sua vita, ovvero quelli con il fratello Theo e con Paul Gauguin.
Il regista newyorchese vuole fare del suo film un’opera d’arte, sottolineando i momenti di estasi paesaggistica con un piano in sottofondo e muovendosi sinuosamente con la macchina da presa. Questa idea di cinema non si sposa alla perfezione, però, con la messa in scena dei demoni interiori di Van Gogh e, proprio per questo motivo, At Eternity’s Gate appare troppo sbilanciato, poco coinvolgente a livello emotivo e, a tratti, sconnesso.
In diversi momenti, gli eccessi formali finiscono col fagocitare il film, impegnato più a piacere che a coinvolgere. Ci sono degli sprazzi di grande cinema, soprattutto negli scambi tra l’artista e Gauguin. Nel complesso, l’operazione sembra però un po’ programmatica, di difficile lettura. Il film di Schnabel è come un quadro ben dipinto che non sa emozionare.
Sergio