Beau ha paura recensione film di Ari Aster con Joaquin Phoenix, Nathan Lane, Amy Ryan, Parker Posey, Patti LuPone, Armen Nahapetian e Kylie Rogers
Che Ari Aster sia tra i registi più visionari della sua generazione è cosa certa. Dal lungometraggio d’esordio Hereditary – Le radici del male (2018), da lui scritto e diretto dopo una serie di cortometraggi nella carriera da cineasta, ha cavalcato l’onda della passione per l’horror nata in tenera età e ha diretto il suo secondo film, quello più conosciuto al grande pubblico: Midsommar – Il villaggio dei dannati (2019), con una Florence Pugh difficile da dimenticare. Ma il suo terzo film, Beau ha paura, il più lungo della “trilogia” in termini di durata (ben 179 minuti), scava in maniera ancora più catartica nella profondità dell’anima e si inebria di citazionismo filosofico in una discesa agli Inferi crudele, cupa, ironica (Beau Is Afraid è una commedia dell’orrore come si legge altrove) e disturbante.
Per citare David Lynch, sembra che Aster abbia seguito le orme del maestro intoccabile con il suo Mulholland Drive (2001) imboccando la via della meditazione trascendentale per indurre lo spettatore a fare i conti con le paure che angosciano la psiche umana. Per fare a pugni contro se stesso, proprio come Diane Selwyn (Naomi Watts).
Ascendente lynchiano (e per certi versi anche peeliano), punte esistenzialiste, filosofia freudiana che si intreccia al popolare complesso edipico, psicologia occulta si mescolano al black humour di un mistero costruito sui vari livelli stratificati della ragione umana. Dall’inizio alla fine la confusione, il paradossale, il surreale, il disturbo ossessivo-compulsivo, i traumi infantili prendono possesso sulla logica del buon senso e trascinano le immagini filmiche in una vorticosa danza tribale orrorifica e sardonica. Tastando il terreno con piccoli gesti inspiegabili che diventa fertile a una visione via via sempre più allucinante e allucinatoria.
Beau ha paura è un turbinio di delirio disperato ambientato dentro la coscienza paranoica dell’uomo. Tratto dal cortometraggio del 2011 dello stesso Ari Aster, Beau Is Afraid si aggroviglia tra i tormentati lati oscuri dell’Inferno dantesco, in una corsa contro il tempo di un’intera esistenza tra gironi e bolge fino a ritornare alle origini della sua alienazione psichica. A quando Beau (Joaquin Phoenix sorregge tutto il marasma dei gravi disturbi mentali) in un’inquadratura in soggettiva ha aperto gli occhi per la prima volta, e ha cominciato a respirare il suo incubo peggiore tra la follia della madre Mona Wassermann (Patti LuPone) e i primi gemiti puerili.
Ed è proprio dalla madre che Beau prende le distanze, schiacciato dalla sua soffocante figura di cui però non riesce a farne a meno. Attratto dalla donna che gli ha fatto più male ma al tempo stesso gli ha dato la vita. Una vita cadenzata nelle sue diverse tappe che Aster mette in scena attraverso l’animazione, la parte razionalmente più toccante di tutta la pellicola. È allora che nella parte più immaginifica dell’affezione intellettiva Beau tornerà a essere un bambino indifeso, bisognoso del grembo materno, così in vita come in morte fatti della stessa sostanza: l’acqua da cui partorisce il nuovo essere, l’acqua in cui Beau sprofonda senza via di scampo. Mentre Mona lo guarda dallo strato più alto. La poetica asteriana glissa sul Silencio.