Better Man recensione film di Michael Gracey con Robbie Williams, Jonno Davies, Steve Pemberton e Alison Steadman [Anteprima]
Uno dei generi più complessi da portare al cinema è il biopic, o più in generale il film storico, in quanto figlio di una contraddizione: usare qualcosa di intrinsecamente finto (il cinema) per raccontare la realtà.
Nascono da qui tentativi di creare film, o talvolta documentari, in cui la natura finzionale del medium venga messa in risalto. Ne sono esempi Il segreto di liberato, che alterna riprese documentaristiche a spezzoni animati, o il recente Piece by piece, biopic realizzato con le animazioni dei lego.
In questo solco entra anche Better Man, biopic incentrato sulla vita del famoso cantante Robbie Wiliams. La trama, dopo un piccolo prologo sull’infanzia della star, copre principalmente tre decadi della sua vita, concentrandosi sui vari problemi personali e familiari e la lotta contro i propri demoni interiori, fino ai tentativi di suicidio e successiva riabilitazione psicologica.
Tratto distintivo dell’operazione fin dall’uscita dei trailer era stata la rappresentazione dello stesso Williams, che per tutto il film ha l’aspetto di uno scimpanzè umanoide (palesemente uscito dalla nuova saga del Pianeta delle scimmie) realizzato con la performance capture. Il cantante mette nel film la propria voce (sia come protagonista che come narratore esterno) mentre movimenti e espressioni, ovviamente ricoperte dalla CGI, sono dell’attore Jonno Davies.
Questa scelta, che sembra puramente motivata da ragioni di marketing, racchiude in realtà la doppia anima del film: da un lato Williams vuole spogliarsi degli appellativi che lo hanno accompagnato per tutta la sua carriera (“vanitoso”, “egocentrico”…), ritraendosi con fattezze poco attraenti; dall’altro, ammettendo apertamente i propri difetti, conferma quegli stessi appellativi: essendo l’unico con quelle fattezze “peculiari” l’occhio cadrà sempre su di lui, anche nelle inquadrature in cui non è in primo piano.
Tramite il racconto della propria vita, il cantante si fa portavoce di varie tematiche delicate molto ricorrenti nella nostra società e in cui tutti potrebbero riconoscersi, almeno in una di esse: il non sentirsi amati dai propri familiari, la ricerca di fama per sopperire a tale mancanza, l’ansia di non riuscire, la difficoltà a costruire nuovi legami affettivi, il perdere quelli vecchi, l’autodistruggersi per l’incapacità di affrontare i propri demoni.
Il regista Michael Gracey porta il tutto in scena con grande creatività, dando vita a numeri musicali freschi e ben coreografati, in grado di giocare con lo spazio e il tempo in favore dell’emotività dei protagonisti. Rispetto al suo lavoro più famoso, The Greatest Showman, si evita anche l’incensamento della figura centrale, qui rappresentata in tutti i suoi vizi e debolezze.
Solo nel finale si cede a un effettivo eccesso di melassa, in netto contrasto con la cattiveria mostrata nelle due ore precedenti (mai pesanti). Tuttavia è un difetto trascurabile per un’operazione tra le più riuscite tra quelle recenti di stampo analogo.