Black Dog recensione film di Guan Hu con Jia Zhangke, Eddie Peng, Liya Tong, Zhang Yi e Hong Yuan.
Dopo dieci anni di prigione, Lang (Eddie Peng) torna nella sua città natale, svuotatasi ormai quasi del tutto. La gente che si è trasferita altrove ha abbandonato lì i propri cani, che ora vagano liberamente per le strade e i palazzi deserti. In preparazione alle Olimpiadi, il comune ha quindi deciso di catturare tutti i randagi e ripulire la città prima dell’imminente ristrutturazione. Lang viene così reclutato nella squadra di accalappiacani, ma l’incontro con un cane nero sospettato di avere la rabbia cambierà ogni cosa.
Il legame animale-padrone è un tema molto romantico e sentimentale, che se affrontato con eccessiva ingenuità corre il rischio di risultare sdolcinato. Tuttavia, Black Dog, vincitore del premio Un Certain Regard al Festival di Cannes, esplora la profondità di questo rapporto con un realismo commovente che non risulta mai posticcio.
Tanto Lang quanto il cane del titolo sono dei randagi, due esclusi dalla società. Lang è colpevole di omicidio colposo, un evento che ha posto fine alla sua carriera di motociclista sportivo e di cantante. Da allora si è chiuso in sé stesso, scegliendo un’esistenza fatta di silenzio e di esclusione. La sua è una punizione autoimposta, una condanna alla solitudine e al rifiuto di qualsiasi sentimento per espiare i propri errori. Il suo amico a quattro zampe è sospettato di avere la rabbia, ed è quindi l’escluso per eccellenza, la bestia da cacciare per antonomasia.
Subiscono entrambi le ostilità della società nei loro confronti, ma entrambi sono capaci di compassione e amore. Sono due reietti odiati da tutti che, grazie al loro incontro, trovano qualcuno su cui riversare l’affetto che non sono capaci di concedere a loro stessi.
Lo sfondo nel quale la loro rinascita prende luogo gioca un ruolo fondamentale. Gli edifici scrostati e le strade deserte e assolate della città, unite alle distese ventose del deserto del Gobi, tratteggiano un paesaggio desolante e spoglio, ma di un’affascinante bellezza. Il regista Guan Hu inserisce i personaggi in spazi vastissimi ma vuoti, facendoli così sembrare sperduti e schiacciati dal mondo che li circonda. Grazie alla composizione delle inquadrature di Weizhe Gao, ogni movimento dei personaggi nello spazio è perfettamente calcolato ed essenziale, e si carica di significato.
La pellicola costruisce così un’atmosfera e un’estetica dell’abbandono fatte di edifici decadenti, torri industriali arrugginite e abitazioni fatiscenti. Lo sviluppo economico cinese viene presentato con un verismo sconcertante e genuino, rendendo ancora più opprimente quel senso di prigionia che perseguita Lang e il suo fido compagno.
La purezza dell’amore che li lega contrasta con tutto ciò che gli è attorno, ed è l’unica cosa pura che può sbocciare in quel deserto. Il loro viaggio diventa quindi testamento di un ritorno alla vita, non importa quante siano le avversità. Il film infatti non si trattiene dal vibrare colpi pesanti a entrambi. Tuttavia, la dedica finale “a tutti coloro che si sono rimessi in viaggio” suona come un invito a riscoprire la bellezza e il valore anche nel più ostile degli ambienti, e di proteggerle a tutti i costi.