Botox recensione film di Kaveh Mazaheri con Sussan Parvar, Mahdokht Molaei, Soroush Saeidi, Mohsen Kiani e Morteza Khanjani al Torino Film Festival 38
Il cinema iraniano contemporaneo – o perlomeno i suoi registi più rappresentativi, Abbas Kiarostami, Asghar Farhadi e Jafar Panahi su tutti – ha sempre messo al centro dei propri film l’esplorazione della realtà, spesso unita alla critica sottotraccia della società. Botox, primo lungometraggio di Kaveh Mazaheri, presentato in concorso al Torino Film Festival, ha in comune con questi illustri predecessori l’attenzione al contesto sociale ma lo affronta con un approccio diverso, modulandolo attraverso una commedia nera che sembra più di derivazione occidentale. Siamo lontani dal dramma psicologico o dalla rappresentazione documentaristica delle privazioni della libertà in Iran. Il suo è un film che cerca l’umorismo amaro, l’ironia all’interno di situazioni tragiche, la fuga onirica da un ambiente che non lascia speranze.
Nel raccontare il rapporto tra Emad, giovane che sogna di trasferirsi in Germania, e le sorelle Akram e Azar, il regista Kaveh Mazaheri si serve del microcosmo per toccare temi più grandi, come quelli della disabilità e della condizione femminile. Essere donna in Iran significa partire da una posizione di svantaggio, ancora di più se si soffre di un ritardo mentale. Akram, che è probabilmente affetta da una forma di autismo, viene infatti continuamente dileggiata e sfruttata dal fratello, che non perde occasione per esercitare su di lei un potere autoritario e meschino. La situazione cambia quando, all’ennesima presa in giro, si scatena la rabbia repressa della donna, invertendo la dinamica familiare.
Botox si trasforma, a questo punto, in un thriller con sfumature tendenti all’horror. Più che sulla suspense, la regia tende però a soffermarsi sulla componente grottesca della vicenda e sulle peripezie per nascondere quanto è accaduto. Se inizialmente la narrazione procede spedita senza intoppi, creando curiosità nello spettatore, a un certo punto le idee cominciano a mancare e Kaveh Mazaheri si rifugia nell’onirismo per dare senso alle immagini. Il film mantiene una certa tensione ma sembra non arrivare mai al punto, sviluppandosi in una serie di sequenze che hanno più un’intenzione emotiva che di raccordo narrativo. Il regista riesce tuttavia a cavarsela, utilizzando con intelligenza la macchina da presa in alcune inquadrature in campo lungo che hanno valenza non soltanto da un punto di vista stilistico ma anche in termini di significato.
Botox appare però per certi versi come la proteina da cui prende il titolo, che si rifà al lavoro nel centro di chirurgia estetica di Azar, con riferimento a una (presunta) emancipazione femminile, in realtà basata su presupposti effimeri, a cui sta arrivando anche la società iraniana. Sebbene il film sia pieno di sfumature e si mantenga fedele alla direzione stilistica che gli vuole dare Kaveh Mazaheri, si ha la sensazione che gli orpelli rappresentino una copertura dei buchi di sceneggiatura che si palesano in qualche tratto, in particolare prima dello scioglimento finale. Difetti che si possono perdonare e sono figli di una mano ancora non esperta (si tratta sempre di un esordio). A convincere, senza esitazioni, è invece lo sguardo non convenzionale verso una realtà contraddittoria e in continuo divenire.