Buio recensione film di Emanuela Rossi con Denise Tantucci, Valerio Binasco, Gaia Bocci, Olimpia Tosatto, Elettra Mallaby e Francesco Genovese
Surreale e onirico, Buio racconta la storia di tre sorelle “intrappolate” in una vecchia casa nella provincia torinese di Moncalieri.
Opera prima di Emanuela Rossi, che oltre a dirigerlo lo ha scritto a quattro mani insieme a Claudio Corbucci, Buio – Darkness è stato presentato nella sezione autonoma della Festa del Cinema di Roma 2019, Alice nella città – Panorama Italia.
Mai titolo fu così azzeccato. Sin dai primi minuti lo spettatore viene calato perfettamente nell’atmosfera cupa e claustrofobia della villa, così da poter percepire l’ambientazione dark della pellicola che nel titolo racchiude la sua vera essenza. Tranne alcune scena in esterna e qualche flash di luce dosato con maestria dalla regista, durante l’intera narrazione si avverte il senso di clausura nei confronti del mondo delle protagoniste raccontato attraverso l’oscurità della loro casa.
Complessa commistione di più generi cinematografici, dal thriller psicologico alla fantascienza passando per il family drama, è ben chiara e delineata l’intenzione della regista di creare, oltre all’atmosfera, anche la suspense tipica delle ambientazioni hitchcockiane, riprodotte accuratamente anche attraverso l’ausilio delle luci soffuse dell’abitazione. Da apprezzare anche la suddivisione della pellicola in capitoli, che ricorda molto lo stile di Quentin Tarantino.
Stella (Denise Tantucci), Luce (Gaia Bocci) e Aria (Olimpia Tosatto) sono tre sorelle segregate in casa dal padre (Valerio Binasco), il quale le convince che non posso uscire perché fuori c’è l’Apocalisse e non sopporterebbero i raggi del sole che, diventati troppo potenti, hanno ucciso due terzi dell’umanità. Solo lui in quanto uomo può uscire a procacciare cibo e ogni volta che lo fa indossa una tuta di protezione, che fino a pochi mesi fa ci sarebbe sembrata emblema di fantascienza ma che oggi, vista la situazione che stiamo vivendo, sembra molto familiare.
Ogni volta che ritorna, terrorizza le figlie con i racconti dei suoi omicidi per trovare da mangiare e su donne bruciate dal sole. Le figlie accettano le storie del padre ma continuano a sognare il mondo esterno, replicandolo con la festa dell’aria e il picnic al lago, momenti in cui si possono sentire ancora vive mentre ricordano la loro giovane madre morta.
Le tre sorelle sono rimaste bloccate nel passato non solo nei ricordi ma anche nel loro modo di essere, nei loro vestiti anni 80’ e nella mancanza di tecnologia.
Tutto cambia quando la più grande, Stella, per ritrovare la sorella più piccola scappata dalla villa, esce dalla “prigione paterna” e inizia pian piano a rendersi conto che il mondo non è poi così diverso da come lo ricordava. Approfittando dell’assenza del padre-padrone, si arma di casco e maschera e si allontana dalla casa per scoprire di nuovo la vita reale.
Molti sono i riferimenti a Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola e a Mustang di Deniz Gamze Ergüven. Entrambi i film parlano dell’atteggiamento iperprotettivo e asfissiante dei genitori, che genera costrizione, segregazione, negazione di crescere e avere pensieri propri. Le tre protagoniste ricordano molto le giovani adolescenti descritte in quei film, così come la loro curiosità, la voglia di uscire e di scoprire quello che sta succedendo, il loro coraggio e la voglia di reagire.
Solo ribellandosi riescono a vedere di nuovo sia le stelle che la luce e a respirare l’aria. I loro nomi indicano proprio ciò che gli è stato negato e che riescono a riprendersi da sole.
Arianna