C’è un soffio di vita soltanto recensione documentario di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini con Lucy Salani, Porpora Marcasciano e Simone Cangelosi
Abusi su abusi nel lento incedere della vita della transessuale più anziana d’Italia.
Un messaggio pieno di speranza a tutta l’umanità che ha sentito solo parlare della deportazione nel campo di concentramento di Dachau, senza mai provare a comprenderne le conseguenze. Presentato in anteprima fuori concorso alla 39ª edizione del Torino Film Festival, C’è un soffio di vita soltanto parla di vita. Senza dimenticare mai da dove si viene, i propri valori e i proprio principi. Una donna forte nell’animo che non si è mai fermata davanti a un mondo che condanna la diversità sessuale.
Lucy Salani racconta una parte importante della sua vita. Dall’abuso fin da bambina da parte di un prete, si passa alle prime marchette fino alle deportazione nel campo di concentramento e il cambio di sesso. Combatte la discriminazione con coraggio e determinazione negli anni più terribili che la storia possa ricordare. Anni in cui odiare il diverso era fin troppo facile nella mentalità superiore della razza ariana. Ad avercene ancora di donne così, che non hanno paura di lottare per i propri diritti.
Matteo Brotugno e Daniele Coluccini, nel loro primo documentario, inquadrano un racconto fatto di violenza e atrocità di una donna di novantacinque anni che di orrore ne ha visto parecchio, oltre che subirlo sulla propria pelle.
Un racconto molto attuale che pone al centro l’identità di genere e vuole far riflettere sul mantenere inalterata la propria personalità, nonostante la società non veda di buon occhio persone che si considerano diverse dal proprio sesso. E per questo definite “anormali”.
Una testimonianza molto intima e agghiacciante che tenta di andare oltre la verità. Ci si aspetta, magari, che immagini vere sull’orrore della Shoah possano riempire lo schermo per rendere la storia ancora più macabra. E, invece, la sensazione di brivido freddo che si prova è dettata esclusivamente dalla parola, dalla voce flebile che racconta l’animale più feroce che esiste in natura: l’uomo.
Doloroso sentire uno strazio tale, come doloroso diventa il concetto che, man mano che si va avanti, la superficialità della vita sta vincendo la battaglia contro la concretezza dei fatti. L’immaginario collettivo sta prendendo possesso dei ricordi e li sta trasformando nel nulla più totale. Dimenticando, però, che lo scenario più brutale ha cambiato la vita di molti e che bisognerebbe più mostrare che semplicemente leggere.
Non c’è solo l’intenzione di raccontare. C’è un ricordo di sopravvivenza intatto che non andrà più via, che non si può eliminare con un soffio di voce. Resta, fa male, ma va commemorato sempre.