Diciamolo subito, leviamoci il dente: senza i rumor, gli spoiler, l’hype, e senza soprattutto sapere che al timone di quest’opera scombiccherata c’è il regista di Kill Bill e Le Iene, siamo piuttosto sicuri che C’era una volta a… Hollywood in sala sarebbe rimasto appena un weekend, sparendo poi lentamente all’orizzonte senza lasciare traccia di sé. Siamo nel puro fan service: un film fatto da Tarantino, à la Tarantino, per piacere solo a chi piace Tarantino.
Evidentemente, se non fosse il nono film di chi ha girato Kill Bill e Pulp Fiction, non ci sarebbero state tutte le (giustificate) aspettative deluse, e il discorso si fa anche consequenziale: se il percorso dell’autore che ha inventato il cinema postmoderno aveva omaggiato i generi inserendo anche temi politici forti e dirompenti, il punto di arrivo a Once upon a time… in Hollywood non può che essere un punto morto.
La storia – mancata, reinventata, rimasterizzata – dell’eccidio di Cielo Drive ad opera della Manson Family è un’onanistica celebrazione del cinema, in particolare di quello anni ’60, che ripesca senza nostalgia ma con furbizia nell’immaginario già citato in abbondanza in precedenza. Ed ecco dove il film cede, e sbanda, e sbaglia: se è noto che Tarantino abbia forti problemi di sceneggiatura con la narrazione lineare, il suo procedere per macro-storie questa volta non regge il vuoto pneumatico di 145’ riempiti con mancati virtuosismi, che colorano le vignette sempre più scollegate tra di loro dando ora anche cadenze gustose, ma senza mai raggiungere veramente né il cuore profondo dello spettatore né le altezze letterarie dei film precedenti.
Ma quello che soprattutto non si può perdonare a questo capolavoro mancato è la mancanza di vera ambizione: la cura maniacale del dettaglio (dai poster d’epoca, ai trailer, alle insegne, fino alla fisiognomica dei personaggi storici) è un divertissement che purtroppo non trova nessuna corrispondenza dal punto di vista tematico del film. Quello che sembra mancare, insomma, è un’idea forte oltre all’intuizione che emerge solo a dieci minuti dal film – e non per niente il titolo, presupposto fiabesco di reinvenzione artistica, compare solo alla fine – e che è chiaramente riciclata da altre opere ben più riuscite (chi ha detto Bastardi Senza Gloria?).
Non c’è genio, non c’è brillantezza, non c’è nessuna esplosione concettuale o dialogica: insomma non c’è niente che, scrostata quella patina glamour ormai fin troppo di maniera, faccia sì che C’era una volta a… Hollywood possa dirsi un film riuscito. E non è affatto brutto, eh: semplicemente, è un film che vive solo, riallacciandosi al fan service dell’inizio, di tutto ciò che un pubblico scafato e amante delle tarantinate può vedere, intuire, immaginare, inventare da sé.
È oltretutto un film vittima di una vistosa empasse: se, come è stato frettolosamente e sbrigativamente giudicato in patria (gli stessi States che osteggiano Allen tanto per capirci), questo non fosse il suo capolavoro, non si capisce la maturazione artistica da dove arriverebbe, se magari dalla mancanza di scene tipicamente tarantinate – iperviolenza o dialoghi fiume – perché se così fosse, quel finale così tipico contraddirebbe tutto.
Ma siamo di fronte a un calderone di intuizioni, schizofreniche, iperattive, convincenti a tratti, che mostrano però il fiatone quando devono arrivare a costruire una narrazione sensata. Peccato insomma: per l’equivoco in cui cadranno e sono caduti i fan, e che tutto abbia quel sapore di grande scherzo dove però si diluisce il senso drammatico e cosa più grave il senso di un’epoca, distorta negli infiniti balli di Sharon Tate.
Gianlorenzo
PS: Trovate a questo link la nostra recensione positiva a 4 stelle a cura di Gabriela.