Caleb recensione del film diretto ed interpretato da Roberto D’Antona con Annamaria Lorusso, Francesco Emulo, Alex D’Antona, Nicole Blatto e Natalia Moro
Quello di Roberto D’Antona (Fino all’inferno, The Last Heroes) è senza dubbio un cinema “piccolo” nella sua essenza. Un cinema che lavora d’atmosfere, di scrittura, fregiandosi di un forte elemento citazionista con cui approfondire il contesto narrativo. A distanza di tre anni da quell’opera prima di The Wicked Gift (2017) – rilettura dei b-movie del cinema horror – D’Antona non s’è mai fermato, e con Caleb (2020) realizza il primo turning point della sua (giovane) carriera.
In una continua rilettura e contaminazioni di generi. Dal sopracitato lungometraggio d’esordio al gangster movie con elementi sci-fi/horror di Fino all’inferno; passando al coming of age/horror dalle atmosfere Kinghiane di The last heroes sino al sopracitato Caleb, con cui D’Antona celebra il cinema horror e la filmografia del genere vampiresco.
Proprio per la vastità di tale sottogenere horror, anche la natura “di genere” di Caleb è variegata. L’opera di D’Antona riesce infatti a essere un horror piuttosto classico nella sua narrazione, ma con contaminazioni di genere nello sviluppo, dal giallo, all’action; l’ideale con cui dispiegare l’elemento citazionista del suo cinema, in modo inedito e più maturo rispetto alle opere precedenti.
Prodotto da L/D Production Company e distribuito da CG Entertainment e in sala dal 20 agosto 2020; nel cast di Caleb – oltre al regista – figurano: Annamaria Lorusso, Francesco Emulo, Erica Verzotti, Natalia Moro, Nicole Blatto, Mirko D’Antona e Alex D’Antona.
Caleb: sinossi
Rebecca (Annamaria Lorusso) una giornalista di cronaca nera, è sulle tracce di sua sorella Elena (Erica Verzotti), anch’essa giornalista. L’indagine la conduce fino a Timere, una cittadina svizzera che non compare nelle mappe. Un luogo remoto e lontano dal frastuono della quotidianità, in cui vige il rigore del silenzio e il timore di qualcosa di oscuro.
Rebecca inizierà a mettersi sulle tracce della sorella, ambientandosi e chiedendo aiuto alla gente del posto. L’incontro con Caleb (Roberto D’Antona), le cambierà la percezione di Timere.
Caleb è infatti un uomo affascinante, ricco ed elegante, che sembra celare un oscuro segreto. In un luogo il cui tempo sembra muoversi tra le ombre, presto Rebecca si ritroverà faccia a faccia con le sue più oscure paure.
Caleb: la rilettura del genere secondo D’Antona
A partire dalla sequenza d’apertura in medias res del racconto, s’intuisce come D’Antona voglia esaltare il contesto scenico per mezzo dell’uso intelligente della fotografia in notturna e di croma bruciati e accesi nelle sequenze orrorifiche. Per una regia che per mezzo di campi lunghi ci fa immergere in un incubo a occhi aperti nei meandri della notte tra personaggi pittoreschi e spettrali. Si dispiegano così le atmosfere stokeriane di una struttura narrativa che nel declinare l’eterna dicotomia bene/male, assurge il tutto agli archi della Rebecca della Lorusso e del Caleb di D’Antona.
Delineando così un intreccio che nel suo sviluppo organico vive d’immagini e sensazioni. Di docce di sangue e di neve nel buio della notte, ma soprattutto di atmosfere e contaminazioni di genere. Laddove la connotazione del personaggio della Lorusso giustifica narrativamente un elemento giallo che è un po’ il motore del racconto nel dispiego dell’intreccio; la risoluzione dello stesso è figlia di una marcata accezione action che dà al racconto dinamismo e spettacolarizzazione.
Una doppia anima quella di Caleb, figlia non solo della rilettura di D’Antona del Dracula di Bram Stoker (1992) nel delineare la struttura narrativa, ma anche nelle ispirazioni per lo sviluppo della stessa. In una Timere che per atmosfere e sapore ricorda tanto la simil-lovecraftiana Hobb’s End de Il seme della follia (1995), e in una minaccia oscura e latente degna di Suspiria (1977). Ma il marchio di Carpenter lo si evince dal tono action del terzo atto, che tanto rievoca le atmosfere di Vampires (1998).
Un villain tra Bram Stoker e Louis Cypher
L’entrata in scena dell’omonimo villain avviene con naturalezza e semplicità, in una morfologia a metà tra il Louis Cypher di Angel Heart (1987) del compianto Alan Parker e il Lestat di Intervista col vampiro (1994); alzando così, sensibilmente, la posta in gioco e dando dinamicità al racconto. Sul solco dei grandi vampiri scenici, Caleb provoca, osserva, seduce; ammalia; ipnotizza i suoi interlocutori e li porta all’orgasmo.
Sino ad una sequenza che è teatro nel teatro, dove la fitta nebbia che dirada il suo animo si schiarisce agli occhi dello spettatore. In tal modo Caleb ci mostra la vera natura vampiresca del suo villain; potenziandone – di riflesso – l’aura scenica.
“L’uomo nero per i bambini; le tenebre per gli adulti; il brivido gelido della morte che percorre lungo la schiena. Una creatura malvagia che per vivere si nutre del sangue. Una bestia e un mostro. Il male vestito da uomo”. Dal suo ingresso nelle dinamiche narrative, la presenza del Caleb di D’Antona aleggia in ogni momento del racconto; nella sua reggia che svetta su tutta Timere; negli eventi di cui è partecipe; negli sguardi spenti degli abitanti che si ravvivano al suo nome, e nella leggenda che lo accompagna.
Elementi vitali nell’economia del racconto, con cui potenziare la dimensione mitologica e orrorifica del villain, ma con cui si corre il rischio di una caratterizzazione bidimensionale. Ecco così, che nella fase di transizione tra secondo e terzo atto, viene approfondito il background scenico del villain; mostrandoci gli orrori e la corruzione d’animo che lo ha portato alla sua evoluzione nosferaturiana.
Tale digressione, tuttavia, se essenziale nel generare empatia con il mostruoso villain, tende a spezzare un po’ la tensione drammaturgica; ri-esplodendo però del tutto nello sviluppo netto del terzo atto.
Una nuova frontiera del cinema italiano
Tra una componente horror che vive di sequenze oniriche e jump-scare potenziati da un audace uso della colonna sonora, Caleb è la piena espressione non solo della poetica “in evoluzione” del suo cineasta, ma anche dell’ambizione insita nel minutaggio imponente. D’Antona cresce come cresce la sua idea di cinema, più matura, sensibile nella cura dei sentimenti, e registicamente attenta alla messa in scena.
Quindi si, Caleb rappresenta non solo il primo turning point della carriera di D’Antona – al punto da chiederci cos’altro possiamo aspettarci “un domani” da lui. Ma anche un notevole passo in avanti nella percezione del cinema indipendente italiano, sempre più da tenere in considerazione nella sua capacità di generare prodotti interessanti e di grande inventiva.