Intervista a Carlo Poggioli, costumista tra Gilliam, Fellini, Sorrentino e Malick

La linea della visione: intervista a Carlo Poggioli, costumista tra Gilliam, Fellini, Sorrentino e Malick

Carlo Poggioli (Torre del Greco, 1959) è uno dei più importanti costumisti cinematografici del momento, attivo da decenni a livello internazionale. È stato candidato due volte al David di Donatello, cinque volte ai Nastri d’Argento e a diversi premi internazionali: BAFTA, Emmy, due volte ai Costume Designer Guild Award, e ha vinto fra gli altri premi lo Jutra Award (l’Oscar Canadese) ed il Genie Award per il film Silk. Nel 2020 la giuria della stampa estera in Italia gli ha assegnato il Globo d’Oro come migliore costumista dell’anno. Dopo essere stato assistente su set quali La voce della Luna di Federico Fellini, Le avventure del barone di Munchausen di Terry Gilliam e L’età dell’innocenza di Martin Scorsese, nei primi anni duemila si afferma come costumista lavorando sin dall’inizio ai costumi di grosse produzioni hollywoodiane come Ritorno a Cold Mountain, co-firmato con Ann Roth, lo stokeriano Van Helsing e I fratelli Grimm e l’incantevole strega di Terry Gilliam, co-firmati entrambi con Gabriella Pescucci.

La sua carriera procede in autonomia sia con film hollywoodiani come l’horror Il rito e il teen movie fantascientifico Divergent, che con film americani girati in Italia come L’educazione fisica delle fanciulle e il controverso Miracolo a Sant’Anna di Spike Lee. A partire da Youth – La giovinezza Poggioli inizia un importante sodalizio con il premio Oscar Paolo Sorrentino, che si è replicato anche con i due Loro e le serie televisive The Young Pope e The New Pope. Fra i suoi prossimi film, anche l’atteso biopic su Caravaggio di Michele Placido e The Way of the Wind di Terrence Malick.

Ha collaborato per i costumi a molte opere liriche tra cui alcune importanti produzioni del Teatro alla Scala condotte da Riccardo Muti, con la regia di Ruggero Cappuccio: Falstaff Nina, ossia la pazza per amore e sempre con Muti-Cappuccio per il Festival di Salisburgo con Il ritorno di Don Calandrino. Ha debuttato nel teatro di prosa con Luca Ronconi, con il quale ha collaborato per diversi anni.

Intervista a Carlo Poggioli, costumista tra Gilliam, Fellini, Sorrentino e Malick
Intervista a Carlo Poggioli, costumista tra Gilliam, Fellini, Sorrentino e Malick (Credits: Carlo Poggioli)

Carlo Poggioli: intervista al costumista di Gilliam, Fellini, Sorrentino e Malick

Quale è stata la tua formazione da costumista cinematografico?

Carlo Poggioli: Essendo nato nella provincia napoletana, ho frequentato l’Istituto d’Arte e poi l’Accademia di Belle Arti di Napoli (corso di Scenografia e Costume). Mentre ero a Napoli e stavo concludendo i miei studi in accademia, avevo già una grande passione soprattutto per il teatro, e facevo parte di una compagnia teatrale del “teatro d’avanguardia” di quegli anni, la Majakovskij, per la quale mi occupavo di fare scene e costumi. Tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta a Napoli c’era un grande fervore creativo, che ha portato alla nascita di grandi compagnie sperimentali, di molti festival e di spettacoli che hanno fatto la storia come La gatta cenerentola di Roberto De Simone. Finita l’Accademia, la mia insegnante di costume, Odette Nicoletti, che era la costumista di fiducia di De Simone, mi consigliò di trasferirmi a Roma se volevo davvero realizzarmi in questa professione.

Come fu l’impatto con Roma e come ti inseristi nell’ambiente cinematografico?

Carlo Poggioli: Il mio trasferimento a Roma si concretizzò quasi per caso, perché avevo appena finito l’Accademia e l’occasione che mi si presentò non era una proposta di lavoro, ma semplicemente dei miei amici avevano lasciato un appartamento e lo lasciarono a me. Venni a Roma assieme a un mio amico senza alcun contatto in loco, bussando letteralmente alle porte delle varie sartorie della capitale per cercare lavoro: tra queste c’era la sartoria Tirelli, tuttora una delle più importanti sartorie al mondo, che mi accolse. Dopo un po’ fui chiamato da Umberto Tirelli per andare a fare l’assistente per un’opera di un costumista svizzero, e fu quello il mio primo, vero lavoro. Essere ammesso alla sartoria Tirelli è stata la mia fortuna: lì da Tirelli ho conosciuto i miei primi, grandi maestri, che sono stati Gabriella Pescucci, Maurizio Millenotti e Piero Tosi. Fu con Gabriella che feci il mio primo film importante come assistente, Il nome della rosa di Jean-Jacques Annaud, tratto dal romanzo di Umberto Eco.

Come proseguì la collaborazione con la Pescucci fino a Il barone di Munchausen?

Carlo Poggioli: Dopo Il nome della rosa cominciò una grande collaborazione con Gabriella: feci con lei innanzitutto alcuni film di Ettore Scola come La famiglia, molto formativo perché scorrevano tanti anni di storia italiana riflessi anche dai cambiamenti dei costumi, o Splendor; poi arrivò quella grande avventura che fu il film sul barone di Munchausen di Terry Gilliam. Le avventure del barone di Munchausen rappresentò per me il vero, grande impatto con il cinema che amavo, con un cinema che fosse un misto tra fantasia e realtà: la visione di Brazil di Terry Gilliam mi aveva segnato, e lavorare con lui era un sogno che si avverava. Un altro grande sogno che si concretizzò in quegli anni fu l’incontro con Fellini.

A fianco di Millenotti sei stato assistente costumista de La voce della Luna, l’ultimo film di Federico Fellini interpretato da Roberto Benigni e Paolo Villaggio. Come venisti coinvolto e cosa ricordi delle riprese del film? Come hai continuato a frequentare Fellini negli anni successivi?

Carlo Poggioli: Subito dopo aver finito Le avventure del barone di Munchausen ebbi la fortuna di conoscere Maurizio Millenotti, che aveva bisogno di un assistente per La voce della Luna. Federico Fellini è stato per me un grande maestro, che mi ha lasciato un profondo segno. Fellini, sin dalla mia infanzia e dai suoi precedenti film, era per me un’autentica leggenda: non ti so dire perché, ma avendo visto Intervista, Il Casanova e tutti gli altri film precedenti, c’era qualcosa che mi attirava particolarmente in lui. Ebbi la fortuna di conoscerlo e lavorare con lui per circa due anni, perché La voce della Luna fra varie interruzioni durò tantissimo. Una volta completato il film, ebbi addirittura la fortuna di continuare a collaborare ancora un po’ con il Maestro – io l’ho sempre chiamato così anche se mi diceva sempre “chiamami Federico” – perché abitavo nei pressi del suo studio in via Po. Fellini mi chiamava spesso per accompagnarlo a fare delle commissioni, a fare delle compere più disparate, da comprare arredamenti o prendere lampade strane, fino ad andare a mangiare insieme: si stabilì un autentico rapporto di simpatia, che mi lasciò molto sia su un piano artistico che su un piano umano. Quando nell’autunno 1993, mentre stavo in Texas con Maurizio sul set di un altro film, arrivò la notizia della sua morte fu un vero colpo per me: era stato un maestro straordinario.

La costumista premio Oscar Gabriella Pescucci con Carlo Poggioli
La costumista premio Oscar Gabriella Pescucci con Carlo Poggioli (Credits: Carlo Poggioli)
Un altro grandissimo costumista del passato che tu hai più volte citato come tuo maestro è stato Piero Tosi, collaboratore fisso di Visconti e Zeffirelli, premio Oscar onorario nel 2014.

Carlo Poggioli: Piero Tosi è stato un mio mentore fino alla fine. Con lui ho lavorato all’allestimento di alcune opere liriche e al film Storia di una capinera di Franco Zeffirelli. Piero era una persona alla quale facevo sempre riferimento: come molti costumisti italiani, mi sono sempre rivolto a lui per qualsiasi consiglio. Ricordo che mentre ero in Turchia a girare la serie televisiva Giasone e gli Argonauti, lo chiamavo continuamente per chiedergli consiglio su come vestire Medea, su come abbigliare gli Argonauti, personaggi che lui aveva già affrontato per il film di Pasolini. In queste occasioni, Piero si dimostrò sempre una persona generosissima: siccome in quegli anni ancora non erano diffuse come adesso le mail, mi faceva arrivare dei fax dove mi mandava continuamente la documentazione che lui cercava per me al Centro Sperimentale di Roma, dove lui era docente, pieni di suggerimenti su come potevo affrontare questo tema storico. Era la generosità fatta persona.

Come hai conosciuto la costumista statunitense Ann Roth e come ti sei trovato a collaborare con lei, fino a co-firmare i costumi di Cold Mountain?

Carlo Poggioli: Quello con Ann Roth è stato un altro grande incontro della mia vita. Conobbi Ann per Il paziente inglese di Anthony Minghella, del 1996. Lei venne in Italia per fare il film, incontrò un po’ di potenziali assistenti italiani, e nacque con lei un’intesa non solo di lavoro ma anche di grande amicizia che dura tuttora. Dopo Il paziente inglese feci con Ann anche Il talento di Mr. Ripley, e poi lei mi fece co-firmare Ritorno a Cold Mountain, un film enorme che temeva di non riuscire a firmare da sola: evidentemente, co-firmare un film di quelle proporzioni fu per me una grandissima opportunità. Fu un grande incontro anche quello con Anthony Minghella, il regista di tutti e tre i film che ho fatto con Ann: Anthony era una grande personalità, un grande regista e un uomo di profonda cultura, e alla sua morte improvvisa siamo rimasti tutti colpiti.

La tua è stata una gavetta molto prolungata e davvero d’eccezione. Cosa pensi ti abbia lasciato la permanenza e la collaborazione prolungata accanto a questi grandi maestri del costume internazionale?

Carlo Poggioli: La mia forza è stata proprio quella di rimanere accanto a questi grandi maestri per molto tempo. È un consiglio che do sempre ai giovani: non cercare di firmare  un film non appena un produttore te lo propone, fai prima tanta gavetta. Credo molto al fatto che sia necessario studiare tantissimo prima di esordire con un film interamente tuo, e ai giovani consiglio sempre di stare a fianco di persone che ti danno tanto, che ti insegnano il mestiere, maestri dai quali tu puoi “rubare con gli occhi”. Solo quando hai una tua formazione culturale e professionale completa puoi permetterti di prendere le ali e di volare un po’ da solo. È quello che ho fatto io: aspettato ho tanti anni prima di decidere di firmare film da solo. Prima del debutto al cinema ho curato i costumi per serie televisive come Giasone e gli Argonauti di cui parlavamo prima, o Le nebbie di Avalon, per la quale fui nominato agli Emmy Awards.

Dopo Le avventure del barone di Munchausen, quando sei tornato a collaborare con Terry Gilliam?

Carlo Poggioli: Una seconda collaborazione con Terry Gilliam ci fu quando lui mi chiamò per fare una grande pubblicità della Nike, in vista dei giochi olimpici del 2000. Con Terry ho avuto anche la fortuna e la sfortuna di lavorare, sempre assieme a Gabriella, al progetto originario di un suo Don Chisciotte, che fu notoriamente un fallimento. Non appena mettemmo piede sul set accaddero le cose più strane, tant’è che hanno fatto un documentario, Lost in La Mancha, solo per raccontare tutte le vicissitudini che abbiamo passato per cercare di girare un film che poi venne cancellato. Il primo giorno di riprese, in un luogo dove da sei anni non pioveva, improvvisamente arrivò un fiume di acqua che portò via le macchine da presa, i cavalli, i costumi… una grande, incredibile sfortuna. Il film purtroppo si bloccò definitivamente perché il protagonista originario, Jean Rochefort, aveva accusato dolori alla prostata perché andava a cavallo, e dopo tante vicissitudini dovemmo chiudere senza aver completato, anzi senza quasi aver iniziato, il Don Chisciotte. Era uno dei pochi film per il quale eravamo pronti fin dall’inizio con tutti i costumi e tutte le scenografie, una cosa molto strana per un film di quelle grandezze: di solito una parte dei set e dei costumi vengono completati a riprese iniziate. Dopo che l’originario Don Chisciotte era fallito, ho co-firmato i costumi de I fratelli Grimm e l’incantevole strega con Gabriella Pescucci, per poi fare da solo un altro film con Terry, The Zero Theorem. Nel 2018 Terry ha rifatto il Don Chisciotte, re-intitolato L’uomo che uccise Don Chisciotte, e l’ha ambientato nel contemporaneo per ridurre i costi: i nostri costumi d’epoca che erano rimasti chiusi da Tirelli per circa vent’anni sono stati lasciati lì e mai più utilizzati, e questo è un gran peccato.

Christoph Waltz in The Zero Theorem di Terry Gilliam
Christoph Waltz in The Zero Theorem di Terry Gilliam
I disegni dei costumi di Carlo Poggioli per The Zero Theorem di Terry Gilliam
I disegni dei costumi di Carlo Poggioli per The Zero Theorem di Terry Gilliam (Credits: Carlo Poggioli)
Dopo I fratelli Grimm e l’incantevole strega hai lavorato come unico costumista su The Zero Theorem, ambizioso film di fantascienza esistenziale con atmosfere un po’ alla Brazil. In generale, come hai lavorato sui costumi per caratterizzare il mondo futuristico in cui è ambientato il film? In una nostra precedente intervista il direttore della fotografia Nicola Pecorini ci ha raccontato la creatività con cui hai superato le limitazioni di budget…

Carlo Poggioli: Terry ha girato The Zero Theorem in un momento in cui Gabriella era impegnata, e con mio grande piacere ha scelto di mantenermi come unico costumista. Il budget era davvero basso per un film di fantascienza di quella complessità, e abbiamo affrontato i costumi in modo davvero strano e artigianale. Quello in cui è ambientato The Zero Theorem è un mondo futuristico, e richiedeva a livello di ricerca di materiali una riflessione su come sarebbero cambiati i tessuti  e le forme nel futuro dell’uomo. Abbiamo pensato che andremo sempre di più a indossare tessuti fatti non di cotone o di seta, ma in petrolio, come in effetti sta succedendo già oggi che abbiamo il poliestere, le fibre da laboratorio e tutto il settore dei tessuti sintetici: è stata un’evoluzione del tessuto che in un certo senso avevamo previsto più di dieci anni fa, quando girammo il film. Durante la  preparazione di The Zero Theorem fu la prima volta che vedemmo anche le automobili elettriche, e come le vedemmo pensammo “queste saranno le macchine del futuro”: dopo pochi anni eccole già in giro per tutto il mondo, eppure a noi sembrava assurdo avere una macchina così futurista. Con Terry ci siamo divertiti molto a girare The Zero Theorem, perché a causa del basso budget abbiamo dovuto inventare alternativamente tutte le materie che compongono gli abiti, e ci siamo ritrovati a fare i costumi anche dei protagonisti con delle tovaglie di plastiche, delle tende da doccia, con tutta una serie di materiali poverissimi che però ti restituivano il senso di quello che potrebbe accadere ai tessuti sintetici in un futuro non lontanissimo.

Protagonista del film è l’introverso ed egocentrico Qohen, interpretato da un calvo Christoph Waltz. I suoi costumi sembrano specchio del suo disagio, lenito ma solo momentaneamente dall’incontro con Bainsley (Mélanie Thierry), e in un paio di scene il suo pigiama a righe lo fa assomigliare molto a un ebreo prigioniero in un lager nazista. Come hai lavorato sui costumi di e cosa volevi esprimervi?

Carlo Poggioli: Il pigiama a righe è stata una scelta che voleva trasmettere un’idea di prigionia, perché il personaggio di Christoph Waltz è davvero prigioniero della sua casa. Quando invece abbiamo dovuto creare le tute rosse che indossano sia lui che Mélanie Thierry, Gilliam all’inizio aveva in mente di far indossare loro una tuta stratosferica, “come quelle dei supereroi”, ma io mi misi a ridere, perché gli feci notare che avremmo avuto bisogno di attrezzature speciali e budget ben al di là delle nostre possibilità per fare un’operazione del genere: noi davvero avevamo solo delle tovaglie di plastica, dei tubi di scarico dei lavandini, e le lampadine intermittenti di Natale. Terry, che è una persona molto intelligente, mi ha dato ragione e ha rimodulato l’idea: “Divertiamoci a farle sembrare delle tute da supereroi fatte a mano”, e davvero ci abbiamo inserito anche delle lampadine di Natale al LED.

Nonostante l’artigianalità delle soluzioni, The Zero Theorem è un film con dei costumi molto credibili, che esprimono bene il disagio dei protagonisti e le tematiche del film.

Carlo Poggioli: Eravamo in un film un po’ alla Ed Wood, facevamo costumi fatti tra di noi ma con un tale divertimento e tale gioia che veramente lasciavi passare tutto e alla fine comunque rendevano. Nella loro semplicità, i costumi dischiudevano dei significati ben precisi: magari le tute davvero erano delle tute “fatte in casa”, ma avevano delle caratteristiche per cui pretendevano di essere un’altra cosa o almeno vi alludevano. Un po’ come nel cinema di Malick: vedi sullo schermo un elemento che ha un altro significato oltre a quello più immediato, apparente. Lo stesso discorso lo faceva Fellini: le simbologie di cui Fellini disseminava i costumi, gli oggetti di scena e anche gli animali che comparivano nei suoi film hanno a monte delle indicazioni ben precise e dei riferimenti ben precisi. Se i riferimenti vengono colti o meno dallo spettatore non interessa più di tanto al regista: interessa il modo in cui lui li ri-esprime e il modo in cui lo spettatore li recepisce. I riferimenti, le allusioni e le simbologie che stanno dietro agli abiti di un film sono importanti anche per indirizzare gli attori nelle loro performance.

I costumi di The Zero Theorem diretto da Terry Gilliam
I costumi di The Zero Theorem diretto da Terry Gilliam
In generale, qual è la tua collaborazione con gli attori rispetto ai costumi che tu disegni? Quanto sono coinvolti nel processo creativo e nella scelta definitiva dei capi di abbigliamento?

Carlo Poggioli: Ho raccontato tante volte un aneddoto molto curioso, che spiega molto come l’apporto di un attore può cambiare completamente la tua idea su un personaggio: mentre stavo facendo Il rito, un horror con Anthony Hopkins che interpretava un prete esorcista, avemmo la sfortuna che, a causa dell’eruzione del vulcano islandese Fagradalshraun che provocò disagi in tutto il mondo, Hopkins non poté presentarsi alle prove costume, ma arrivò direttamente sul set la sera prima di girare. I produttori, spaventati dal ritardo, mi chiesero di presentargli quello che in gergo si dice moodboard: vestiamo una comparsa e la fotografiamo scena per scena per come l’attore sarà vestito, così intanto capisce il carattere del personaggio. Io mi opposi: con un attore di quel calibro ci devi prima discutere; io già gli avevo mandato idee e disegni su come poteva essere, perché mi sembra giusto che un attore arrivi e sappia cosa deve indossare: ma solo quando indossa in prima persona i costumi si rende conto del personaggio.

Una volta arrivato sul set Anthony Hopkins come reagì alle scelte prese a monte?

Carlo Poggioli: Anthony arrivò la sera prima del primo ciak, ma riuscimmo a provare solo la talare che doveva indossare per il grosso del film: era troppo stanco per provare altri abiti. Per la prima scena che si doveva girare, una delle scene-madri, i produttori e anche il regista Mikael Håfström immaginavano che il personaggio di Hopkins dovesse avere un vestiario stratificato, un pigiama con sopra il cappotto e la sciarpa: io però ero un po’ dubbioso, e attendevo di sapere se anche Hopkins vedeva il personaggio così. La mattina dell’inizio riprese ci ritroviamo tutti fuori dalla sua roulotte, e dovevo essere io quello che entrava a dirgli l’idea di costume che avevano il regista e i produttori; lui invece mi guardò e mi disse “No Carlo, io credo proprio che questo personaggio in questa scena è completamente l’opposto: deve essere nudo”. Io la trovai un’idea geniale, perché esprimeva il senso del film: “Io voglio esporre il mio corpo verso questo Male che è il Diavolo senza nessuna paura”. Quando uscii fuori a dirlo agli altri della troupe, fu un po’ anche una mia vittoria, perché avevo insistito a dire che un attore del genere non può essere indirizzato a monte su come definire il suo ruolo: poi dopo che la sua scelta suscitò un piccolo scandalo riuscimmo a convincerlo a indossare almeno i boxer, ma con la sua interpretazione Hopkins fu talmente bravo da restituire la sensazione della nudità ma anche del coraggio nei confronti del Male incarnato.

Come costumista tu quindi dai molta importanza al confronto con gli attori?

Carlo Poggioli: Fa parte del lavoro di un costumista ascoltare il parere fondamentale dell’attore che deve calarsi in un determinato personaggio. Alcuni interpreti sbagliano e fanno il contrario, si aspettano che il costumista faccia trovare tutto già pronto e definitivo, e in questi casi serve una grande psicologia: noi costumisti dobbiamo essere buoni psicologi, se non a volte psichiatri mi verrebbe da dire, perché per ogni film è necessaria l’introspezione del carattere di un attore che deve trasformarsi in un personaggio diverso da sé.

I disegni dei costumi di Carlo Poggioli per The Zero Theorem di Terry Gilliam
I disegni dei costumi di Carlo Poggioli per The Zero Theorem di Terry Gilliam (Credits: Carlo Poggioli)
Venendo adesso alla parte italiana della tua carriera, come hai conosciuto Paolo Sorrentino e come è nato il tuo coinvolgimento in Youth?

Carlo Poggioli: Conoscevo Paolo avendolo incontrato a qualche festival del cinema, ma non era capitata l’occasione di lavorare insieme. Mentre ero in preparazione di una serie televisiva ad altissimo budget su Tutankhamon (che girammo poi in Marocco, e per la quale feci realizzare più di 5.000 costumi), Paolo mi chiamò chiedendomi quando avrei finito, e mi propose di vederci per parlarmi del suo nuovo progetto, che poi sarebbe stato Youth. Ci siamo incontrati e ci siamo subito ben presi, forse perché essendo tutti e due napoletani abbiamo molte cose in comune tipiche della nostra terra soprattutto quel senso dell’umorismo che ci  ha sempre legato molto. Dopo aver discusso con lui sulla sceneggiatura, cominciai a preparare delle referenze fotografiche e dei disegni sulle idee e sui caratteri principali che Paolo mi aveva esposto. Il nostro è stato un incontro facilitato dalla sua chiarezza nel voler le cose, e al tempo stesso dalla sua apertura rispetto ai suggerimenti miei o degli altri collaboratori di set. Nei diversi film e serie che abbiamo affrontato insieme, siamo riusciti sempre a trovare un punto di fusione tra le nostre idee, e le giuste soluzioni nel creare con l’aiuto del costume, i caratteri giusti descritti nella sceneggiatura, cosa che non è mai semplice.

Cosa pensi differenzi l’approccio di Paolo Sorrentino rispetto ai costumi e in generale ai suoi film, rispetto a quello di altri registi, stranieri o italiani, con cui hai lavorato in passato?

Carlo Poggioli: Io dico sempre che i due registi che mi hanno forgiato da giovane sono stati Federico Fellini e Terry Gilliam, il terzo, venuto dopo, è stato Sorrentino. Con Paolo ho avuto una collaborazione di circa sei anni, facendo grandi film e serie importanti con molto divertimento. Lavorare con Paolo è un’esperienza veramente eccezionale, perché lui, a differenza di altri registi, scrive in prima persona i suoi film e quando lo incontri per parlare dei personaggi, Sorrentino ha sempre molto chiaro quello che deve dire sui loro caratteri e anche su come dovrebbero vestirsi. Al tempo stesso, Paolo è un regista molto aperto al confronto e alle proposte che gli do via via che facciamo un film insieme: partiamo da una sua idea, ma è sempre pronto a trasformarla, per capire lui stesso meglio i personaggi. Il lavoro del costumista è quello di aiutare un attore a diventare un personaggio, a esprimere appieno il carattere di un ruolo che il regista ha pensato. A volte ci sono anche delle sorprese in questo senso: nonostante le ricerche e la preparazione che fai con regista su un certo personaggio, alle prove costume può arrivare un attore che la pensa in modo molto diverso.

Carlo Poggioli e Paolo Sorrentino
Carlo Poggioli e Paolo Sorrentino (Credits: Gianni Fiorito)
I protagonisti di Youth sono Harvey Keitel e Michael Caine, che interpretano rispettivamente Mick Boyle e Fred Ballinger, due anziani in vacanza in una ricca residenza svizzera. Fred è un anziano direttore d’orchestra, Mick un regista, e i due uomini hanno dei caratteri abbastanza antitetici tra loro: come hai caratterizzato, con gli abiti, le loro personalità?

Carlo Poggioli: Sì, sono due vecchietti completamente antitetici. Tutti gli abiti di Michael Caine, compresi i maglioni e gli accessori, erano stati tutti confezionati dalla famosa sartoria napoletana Cesare Attolini che, assieme ai due figli Giuseppe e Massimiliano, porta avanti questa più unica che rara sartoria di grande tradizione artigianale fondata nel 1930. Per anni il “re dei sarti” ha creato capi di lusso per nobili, attori e personaggi illustri come il re Vittorio Emanuele III, Totò e Putin.
Qualche tempo prima dell’inizio delle riprese di Youth, io e i due fratelli Attolini andammo a Londra a provare gli abiti a Sir Caine, al quale avevo inviato precedentemente i disegni relativi al suo personaggio con le proposte dei tessuti con i quali sarebbero stati realizzati  i capi. Per tutto il tempo della prova, Michael Caine non disse una parola. Noi provavamo, lui era davanti allo specchio, facevamo di volta in volta qualche piccola modifica sugli abiti – spalla più alta, spalla più bassa – e lui continuava a rimanere muto. La cosa iniziò a preoccuparmi: un attore che non ti dice nulla mentre sei in prova magari vuole comunicare che non gli piacciono i costumi.
Sempre più preoccupato, arrivammo all’ultimo costume, gli misi un paio di accessori, un fazzoletto ed un cappello, e trovai il coraggio di dire: “Sir Caine, questo è l’ultimo abito”. Lui indossò l’ultimo abito e mi rispose: “Ringrazio, tutti voi, perché anche se sono stanchissimo a furia di stare in piedi adesso finalmente ho capito chi è il mio personaggio”. È stata una grandissima soddisfazione per noi tutti presenti alla prova: abbiamo capito che durante tutta la prova Michael Caine non aveva parlato perché in quel momento stava riflettendo sul suo ruolo, prefigurandosi le scene a seconda dei miei abiti
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Ma dopo Youth la collaborazione con gli Attolini è continuata sia per Loro 1 e Loro 2 e per le due serie The Young Pope e di The New Pope.

In Youth recita anche Jane Fonda, sin dagli anni sessanta un’icona assoluta del cinema e della moda internazionali. Come è stato il confronto con lei?

Carlo Poggioli: L’incontro con Jane Fonda fu straordinario. Arrivò questa donna meravigliosa, che inizialmente dovevamo vestire con degli abiti che ci erano stati spediti  dagli stilisti che normalmente la vestono non solo per i red carpet ma anche nella vita privata. Molte star sono a volte obbligate ad indossare abiti o accessori dei brand ai quali sono legate contrattualmente per i diritti d’immagine.
Cominciammo la prova con gli abiti che ci erano stati forniti appunto dagli stilisti che lei rappresentava ma mentre si guardava allo specchio,  storcendo il naso, diceva “potrebbero anche andar bene Carlo, ma ricordati che il mio personaggio si muove, e si muove tanto”, e a un certo punto ha iniziato a buttarsi per terra, anticipando scene come quella sull’aereo. La Fonda si rivelò una donna con una tale energia che mi spaventava: faceva salti e movenze tali che temevo si facesse male, e nonostante mie le mie rassicurazioni sull’aver capito continuava a dire “no, devi vedere!”. Voleva farmi capire che non voleva nessun abito costruito e rigido (come quelli che ci erano stati spediti) perché doveva muoversi, e così decidemmo di far confezionare sulle sue misure tutti gli abiti necessari per le diverse scene tenendo conto della necessità di darle la più ampia libertà di movimento possibile, utilizzando tessuti preziosi ma con una certa elasticità. Noi costumisti portiamo la nostra idea, ma davanti a un’esigenza così precisa e giustificata da parte dell’attore non puoi dire di no, perché altrimenti ostacoleresti il suo lavoro sul personaggio.
Mi capita spesso però di chiedere aiuto a stilisti che attraverso i loro capi particolari possono rappresentare a pennello il carattere di un personaggio che avevi immaginato  fosse vestito in un certo modo.
Ad esempio nei film e nelle serie di Paolo l’aiuto di Giorgio Armani è stato sempre fondamentale. La sua generosità nel concedere i suoi capi per vestire le attrici e gli attori principali è dovuta al fatto che, oltre ad essere un grande amico di Paolo, Armani è anche un grande amante del cinema. Ed è così che Rachel Weisz in Youth indossa Armani, così come sono vestiti Armani sia Cécile de France che Jude Law (quando indossa abiti borghesi) nelle due serie di The Young Pope e The New Pope.

I costumi di Youth
I costumi di Youth (Credits: Gianni Fiorito/Carlo Poggioli)
I costumi di Youth
I costumi di Youth (Credits: Gianni Fiorito/Carlo Poggioli)
Dopo Youth è arrivata The Young Pope, la prima serie televisiva di Paolo Sorrentino, trasmessa da HBO e Sky nel 2016, e seguita da The New Pope nel 2020. In questa bilogia dei papi, come hai impostato il lavoro sui costumi assieme a Sorrentino e ai produttori? Come è stato possibile vestire un numero così grande di comparse abbigliate in abiti clericali?

Carlo Poggioli: Ambedue le serie sono state molto complicate: avevamo uno stuolo di attori, piccoli ruoli e di comparse impressionante, soprattutto nelle scene corali come quelle ambientate nella cappella Sistina, o del funerale nella basilica di San Pietro, con centinaia di cardinali, vescovi, preti e suore di diverse nazionalità. La difficoltà pratica per le grandi scene, oltre al reperimento del numero dei costumi stessi nel repertorio di tutte le sartorie europee (siamo stati infatti costretti a far confezionare il 50% di essi di sana pianta) era dovuta al fatto che cominciavamo a vestire le comparse anche alle quattro del mattino per essere pronti a girare alle otto. Ad esempio i cardinali ed i vescovi erano tutte persone anziane, che dovevano essere assistite una per una, essere aiutate ad indossare le talari, ad abbottonare le decine di bottoni, ad allacciargli le scarpe etc. A volte nel reparto avevamo bisogno di sessanta aiuti giornalieri per riuscire a vestire tutti nelle quattro ore a disposizione per essere poi pronti a girare nei tempi previsti.
Una cosa che differenzia Paolo da altri registi è la cura del particolare, lui sceglie personalmente fino all’ultima comparsa, curando nel dettaglio i volti, la fisicità, e ovviamente tutti gli elementi dei costumi. Paolo prima di girare vuole visionare sempre tutte le foto di tutte le comparse vestite per poter poi cambiare all’ultimo momento una vestizione completa, un dettaglio, perfino un anello o un occhiale (è ossessionato dalle forme degli occhiali!).
E poi la difficoltà di viaggiare con i tir di costumi o voli charter per raggiungere le diverse location. Da Roma in Sudafrica, o in Inghilterra, o a Venezia, o sulle Alpi.

Protagonisti delle due serie sono Pio XIII/Lenny Belardo, interpretato da Jude Law, il “papa giovane” ma proprio per questo ultraconservatore, e Giovanni Paolo III/John Brannox, interpretato da John Malkovich, fautore di una “via media” con una personalità complessa e fragile. Entrambi i papi sono generalmente abbigliati in vestiti curiali, ma è palpabile una grande attenzione da parte tua, di Sorrentino e degli altri sceneggiatori, nel mostrare come gli abiti facciano parte di un immaginario e di un discorso sul potere e sulla tradizione, a cominciare dal restauro del triregno voluto da Pio XIII nella prima stagione. Innanzitutto, come hai caratterizzato gli abiti del personaggio di Jude Law?

Carlo Poggioli: Nell’impostazione del personaggio di Lenny siamo partiti dal concetto di un papa che attraverso il ritorno alla tradizione, cerca di recuperare i fedeli che stanno abbandonando la Chiesa. È attraverso questo suo mostrare addirittura un ritorno all’immaginario medioevale, indossando vestiti molto complicati, che il personaggio in un primo momento imposta la sua linea di comunicazione. Per ogni mantello che Jude indossava c’erano due mesi di lavoro a monte, per i tagli particolari richiesti per ottenere determinate forme e perché tutte le pietre dovevano essere cucite a mano, in quanto l’uso della colla avrebbe appesantito ancora di più i piviali, con il rischio di perdere le pietre per le temperature altissime avute durante i mesi di luglio e agosto mentre giravamo.
La scelta ha richiesto prima una grande documentazione, come faccio sempre, e, nel caso specifico del personaggio, ci eravamo riferiti a quello che distingue i papi l’uno dall’altro: l’ispirazione per il suo personaggio era Ratzinger, papa Benedetto XVI, l’ultimo papa che ha mantenuto nella chiesa quel tradizionalismo nel vestire restaurando ermellini e gli strani cappelli che i papi hanno indossato durante i secoli fin dalla nascita della chiesa.
Ratzinger cercava sicuramente ispirazione per gli abiti da indossare negli eventi importanti, nelle stanze-guardaroba del Vaticano dove sono archiviate tutte le talari, i piviali, le mitrie etc che hanno indossato i papi nel passato: Benedetto XVI indossava spesso mantelli anche di cento anni fa, facendoli riproporzionare sulle sue misure… è stato sicuramente un papa che assomigliava un po’ al nostro protagonista, che voleva mostrare il potere della Chiesa anche attraverso il modo di vestire.

I costumi di The New Pope
I costumi di The New Pope (Credits: Gianni Fiorito/Carlo Poggioli)
Penso che l’abbigliamento ecclesiastico lasci molti spunti a un costumista, se si fa uno studio filologico della tradizione.

Carlo Poggioli: Certamente: la Chiesa è l’unica istituzione che è rimasta negli anni con lo stesso tipo di abbigliamento. Mentre gli eserciti nazionali o le case regali o nobiliari hanno cambiato le fogge sia delle uniformi che degli abiti regali di secolo e secolo, adeguandosi al nuovo, la Chiesa è rimasta per moltissimo tempo ferma al Medioevo. Dalle prime rappresentazioni che vediamo delle pitture sacre, da Giotto al Rinascimento alla pittura sei-settecentesca fino alle foto di pochissimi anni fa, i papi sono rappresentati sempre allo stesso modo: gli abiti magari sono più o meno ricchi, ma la foggia è sempre quella. Per The Young Pope e per The New Pope, l’ispirazione veniva da tutto il passato iconografico della Chiesa, e Jude Law quando era vestito da papa medioevale indossava questi grandi e pesantissimi mantelli (piviali) che io avevo disegnato prendendo ispirazione dai modelli visti nei Musei vaticani. Ricordo che quando indossò la prima volta il piviale rosso nella scena in cui viene condotto nella cappella Sistina, seduto sul trono di una portantina, (giravamo a metà agosto, in una delle estati più calde mai avute a Roma) andavo da Jude tra un take e l’altro, scusandomi continuamente con lui perché lo vedevo sofferente, sudatissimo… Anche se i suoi costumi erano stati realizzati evitando tessuti e fodere pesanti ed il triregno non era di metallo come l’originale bensì di sughero dipinto, sapevo comunque che la difficoltà di portare sulle spalle e sulla testa tanti chilogrammi, non solo lo facevano soffrire ma gli creavano deconcentrazione per la recitazione. Durante una pausa sono andato da lui per farli togliere il piviale ed il triregno, prostrandomi ancora con mille scuse ma Jude mi ha detto “Carlo, tu non ti devi preoccupare, anzi ti devo ringraziare perché il peso dei costumi che hai fatto mi fanno entrare meglio nel personaggio e mi fanno capire il peso che un papa ha sulle spalle, il peso della sua responsabilità verso la chiesa”.  È una frase che non dimenticherò mai.

Se il Lenny Belardo di Jude Law è Benedetto XVI, il John Brannox di John Malkovich vuole essere papa Francesco?

Carlo Poggioli: Il cambiamento che la Chiesa ha avuto con papa Francesco è stato epocale: Bergoglio ha eliminato completamente tutti gli orpelli che c’erano stati fino a quel momento, fino al pontificato di Ratzinger compreso. Le origini di Bergoglio sono origini semplici, proviene da una famiglia operaia emigrata in Argentina.
È stato iconograficamente rivoluzionario rifiutando di indossare la catena, il crocifisso ed il cosiddetto anello piscatorio, che da San Pietro in poi come vuole la tradizione, erano sempre stati in oro, e invece ha voluto indossare questi accessori papali, realizzati in un semplice metallo argentato, rifiutando di calzare anche le abituali scarpette rosse papali.
Anche i due papi delle serie provengono da due diverse realtà, Jude Law è un papa giovane, proveniente da una famiglia semplice, che non ha più avuto notizie dei suoi genitori. È una persona sola, in continuo conflitto con Dio. All’inizio crede che un ritorno al tradizionalismo sia la strada giusta per far riavvicinare i credenti che si sono allontanati dalla Chiesa, per poi abbracciare una semplicità assoluta verso il finale. In The New Pope invece il personaggio di John Malkovich è completamente diverso, il suo è un papa che proviene da una tradizione nobile inglese, e in fondo è un papa un po’ dandy, gli sono rimaste dentro delle vanità giovanili. All’inizio della narrazione nel suo castello, ma anche quando torna a Roma, a volte lo vediamo ancora vestito in abiti personali, realizzati sempre dalla sartoria Attolini che ha fatto tutto a misura appositamente per lui (circa cinquanta capi fra abiti, cappotti, maglioni, etc.). John Brannox è uno abituato a vivere in un castello, era come quei nobili che – come tuttora ne esistono – magari di mattina hanno un completo per il breakfast poi indossano quello per andare a caccia, poi al lunch time si cambiano, e la sera per il dinner si cambiano ancora una volta… Il personaggio di Malkovich lo abbiamo affrontato in questa chiave, ma anche quando diventa papa non è mai eccentrico come il papa precedente: rimane eccentrico sì, ma solo nella sua vita privata.

The New Pope
The New Pope (Credits: Gianni Fiorito/Sky)
Come hai caratterizzato invece gli abiti ecclesiastici dell’iconico cardinal Voiello di Silvio Orlando, e degli altri personaggi curiali che si vedono nelle due serie?

Carlo Poggioli: Per Voiello mi sono attenuto di più a una tradizione classica, di tanti cardinali che abbiamo visto nella storia della chiesa – quei cardinali che ci tenevano e ci tengono tuttora a esprimere eleganza e potere. Le talari di Voiello, così come quelle indossate da Jude Law e da John Malkovich (e da tutte le decine e decine dei coprotagonisti clericali) sono state create ex novo dalla Sartoria del Borgo di Ety Cicioni, una sartoria ecclesiastica di grande tradizione che fornisce con i suoi capi il clero non solo del Vaticano ma di tutto il mondo.
Ci sono delle regole ben precise nel confezionare gli abiti di un papa, di un cardinale, o di un vescovo: finanche le misure del polso o della mantellina o dell’altezza del collo sono regolamentate e fisse. Anche la ricerca dei giusti tessuti con il giusto colore è stata impegnativa: dovendo fare centinaia di talari, a un certo punto abbiamo avuto anche il problema che non si trovavano più le stoffe giuste. Abbiamo dovuto far tingere chilometri di stoffe con il colore uguale alle talari già fatte.
Voiello è una figura tradizionale, ma la lana era un po’ diversa dalle altre, perché è una lanetta che rifletteva un po’ di luce: questo dettaglio lo abbiamo riservato solo per lui. Un’altra caratteristica era che indossava gioielli, non proprio preziosi ma comunque più importanti di quelli degli altri cardinali, sempre per la sua voglia di trasmettere un’immagine di potere.

Hai affiancato Sorrentino anche nel dittico Loro 1 e Loro 2, un particolare ritratto non tanto della vita quanto della figura di Silvio Berlusconi, interpretato da un ricco cast corale italiano capeggiato da Toni Servillo. Quale documentazione hai svolto questa volta sull’immaginario dell’era berlusconiana? Come hai vestito il Berlusconi di Toni Servillo?

Carlo Poggioli: Per noi costumisti ci sono diversi tipi di film: quando facciamo un film medioevale o storico, è complicato reperire documentazione, puoi solo riferirti alla pittura e alla scultura, fino al Settecento compreso: da metà Ottocento iniziamo ad avere i primi dagherrotipi e poi la fotografia, che ci aiuta moltissimo a capire in che mondo sei. La pittura ti restituisce l’atmosfera di un periodo: la fotografia semplifica di molto la ricostruzione, e ancor di più il cinema, dopo il suo avvento nel 1895, per non parlare adesso che c’è anche Internet. La documentazione per Berlusconi è stata abbastanza semplice: avevamo un’infinità di foto, che ci restituivano tutta la sua vita e soprattutto la parte della sua vita che interessava il film.
Certo, Loro ha comunque richiesto una grande ricerca, e abbiamo dovuto recuperare anche delle immagini sulla vita privata di Berlusconi: ma come Michael Caine e John Malkovich anche il Silvio di Toni Servillo, poiché interpretava un personaggio che anche nella vita reale vestiva da grandi sarti, è stato tutto replicato dalla sartoria Attolini, cercando di essere il più fedeli possibile a tutti i dettagli che il Cavaliere indossava, dai tagli dei suoi doppiopetto, ai colli delle camicie, e alle sue particolari cravatte.

Chi ha vestito invece il personaggio di Veronica Lario, interpretato da Elena Sofia Ricci?

Carlo Poggioli: Anche per il personaggio di Veronica Lario abbiamo avuto un grandissimo e prestigioso aiuto, perché i suoi abiti, soprattutto quelli da mare, sono stati confezionati da Marisa Padovan, una grande stilista che ha vestito e veste ancora le grandi stelle internazionali del cinema: non c’era attrice che veniva a Roma e non passava da lei a farsi fare un prendisole o un abito da sera estivo. Elena Sofia Ricci è stata vestita dalla Padovan sulla base di miei disegni, creando un look che rispettasse il vero look della “signora Lario”. Gli abiti da sera che indossa Elena Sofia erano invece del repertorio storico della famosa sartoria Tirelli.

I disegni dei costumi di Carlo Poggioli per Loro di Paolo Sorrentino
I disegni dei costumi di Carlo Poggioli per Loro di Paolo Sorrentino (Credits: Gianni Fiorito/Carlo Poggioli)
Molti spettatori e critici nel corso degli anni hanno accostato l’immaginario sorrentiniano con il cinema di Fellini. Tu che hai lavorato con entrambi, quali affinità e quali divergenze vedi tra i due, sia a livello di immaginario e sia a livello di metodo di regia e attenzione ai costumi?

Carlo Poggioli: Quello che accomuna il cinema di Fellini al cinema di Paolo, ma che può accomunarlo anche al cinema di Terry Gilliam o al cinema di Malick per quel che mi riguarda, è la visionarietà del modo di fare cinema, quel rapporto che è sempre al limite tra la realtà e la fantasia. Non penso che Sorrentino si “ispiri” da Fellini: Paolo ha le sue idee precise, che possono essere accomunate a quelle di Fellini. Sul finire degli anni venti Fritz Lang girò Metropolis, e quando sono arrivati film successivi come Blade Runner o Star Wars tutti dicevano che erano ispirati al film di Lang: ma è normale nell’evoluzione dell’uomo, fra i vari corsi e riscorsi storici, prendere spunto quello che è stato fatto prima di noi. Il bello del cinema è questo, che ogni film ti dà la libertà di esprimerti, di creare un tuo immaginario che può diventare un immaginario collettivo. Ci sono immagini che ci hanno colpiti tutti: personalmente conosco a memoria tutti film di Fellini, ma ogni volta che rivedo Amarcord e arrivo alla scena del passaggio del Rex io immancabilmente mi emoziono. È come se fosse la prima volta, mi suscita un’emozione legata a ricordi che io ho, e che tutti noi abbiamo, e che accomuna tanti spettatori: Fellini riesce a risvegliare nelle nostre coscienze una stessa emozione, anche se nessuno di noi ha mai vissuto il passaggio del Rex. Questo è il tipo di immaginazione che il cinema dovrebbe darti: farti pensare. Fellini immagina un mondo, e ti fa pensare ed emozionare in un certo modo: Sorrentino immagina un mondo e immagina personaggi che ti fanno pensare ed emozionare in un altro.

Uno dei tuoi prossimi film in uscita è L’ombra di Caravaggio, girato da Michele Placido lo scorso autunno con un ricco cast italofrancese. È noto come molti direttori della fotografia a cominciare da Vittorio Storaro indicano in lui un precursore e un ispiratore delle loro luci, come costumista, quale è l’influenza della pittura di Caravaggio sugli abiti che tu disegni?

Carlo Poggioli: Per un film storico, lo studio e l’influenza della pittura sono importantissimi. Io non avrei mai potuto avere delle ispirazioni per il nuovo Caravaggio di Michele Placido se non avessi studiato prima la sua pittura. La pittura di Caravaggio ti dà un’immagine quel momento che è completamente stravolgente e rivoluzionaria rispetto alla pittura di un Leonardo o di un Michelangelo, che ti danno un’altra emozione. Io apprezzo la loro grandezza, ma di fronte a un dipinto di Caravaggio la mia emozione è diversa, e mi dà quella forza che mi serve per esprimermi come ho fatto per il film di Placido. Adesso mi trovo a Malta per un nuovo lavoro, e non avevo mai visto da vicino il quadro di San Giovanni Battista, neanche quando abbiamo ricostruito la scena per il film di Placido, cosa che ho fatto sulla base delle stampe: domenica scorsa sono andato alla Valletta e sono entrato nella chiesa dove è conservato, e quando mi sono trovato davanti il dipinto originale, ho provato un’emozione grandissima. Conoscevo le sue dimensioni, ma non avevo mai immaginato che potesse essere un quadro così immenso, con personaggi enormi e luci che, viste da vicino, ti sconvolgono interiormente, ti provocano un’emozione tale che tu ti chiedi “com’è possibile che un quadro riesca a emozionarti così”? Questa è la grandezza di Caravaggio, ma questa è la grandezza di tutti i veri pittori.

I costumi di The Zero Theorem - Tutto è vanità di Terry Gilliam realizzati da Carlo Poggioli
I costumi di The Zero Theorem – Tutto è vanità di Terry Gilliam realizzati da Carlo Poggioli
In generale, qual è l’influenza della pittura sul tuo lavoro e quali sono i pittori a cui creativamente “devi” di più?

Carlo Poggioli: Metterei proprio Caravaggio accanto alla pittura di Simone Martini, che ho conosciuto durante l’Accademia, o a quella di Lorenzo Lotto: questi tre sono alcuni dei pittori che mi hanno dato più degli altri, e che ho portato con me quando ho iniziato a curare costumi, soprattutto per quanto riguarda il colore. Ad esempio, ne La Madonna del Parto di Piero della Francesca, un piccolo quadro sperduto nella campagna toscana (Monterchi), la Vergine Maria ha addosso un vestito di un azzurro talmente particolare, che a volte dico ai miei collaboratori “fammi un azzurro come quello della Madonna del Parto”, e subito ci capiamo; così come quando parli del rosso di Caravaggio, c’è un rosso caravaggesco che solo lui ha usato per i suoi quadri, così come la Venere di Botticelli rappresenta una figura così eterea che subito ti rifai a quello se devi esprimere una certa sensazione. Se hai una cultura pittorica incameri inevitabilmente un vocabolario comune che ti porti dentro, e che per un costumista questo è importantissimo.

Lo scorso anno hai lavorato anche a The Way of the Wind, il nuovo attesissimo film di Terrence Malick, incentrato, a quanto risulta, su una lettura inedita della vita di Gesù. Come è stata per te l’esperienza di lavorare con un regista dai metodi notoriamente poco schematici e dalla visione notoriamente molto spirituale come è Terrence Malick?

Carlo Poggioli: Dopo l’incontro con Paolo Sorrentino, con il quale ho lavorato tanto tempo e dovremmo fare presto un’altra cosa insieme se tutto va bene, quello con Terrence Malick ha rappresentato il mio quarto incontro con un regista straordinario e visionario. Forse è questo il tipo di cinema che mi piace di più: i percorsi di Gilliam, Fellini, Sorrentino e Malick si avvicinano, ma ognuno ha una visione diversa su come trasporre la realtà nella fantasia o viceversa.
Terrence Malick però ha letteralmente sconvolto il mio modo di vedere il cinema. L’utilizzo dei mezzi tecnici che fa lui è veramente ridotto al minimo. Sul set di Malick la luce portante è la luce che arriva dal cielo. Non gli piacciono le luci artificiali, notoriamente, e questo mi ha colpito moltissimo: tende sempre più ad usare la luce naturale, la luce artificiale è per lui un grande sacrificio, la adopera solo nelle scene notturne, ma sempre al minimo. Mi ha colpito moltissimo anche la semplicità di quest’uomo nel girare con poche persone attorno: lui vuole che la troupe sia piccola, ma che sia al tempo stesso come una grande famiglia. Altri registi con cui ho lavorato richiedono un grande reparto tecnico, hanno bisogno spesso di sollevare un braccio meccanico, o di montare un carrello: con Malick è tutto ridotto al minimo, perché è tutto in mano alla macchina da presa, il solo occhio che a lui interessa e che nei suoi film si muove generalmente per brevi distanze. Abbiamo peraltro girato The Way of the Wind in posti molto impervi, dovendo fare chilometri a piedi per raggiungere alcune aree di montagna, e posso dire che non ho mai visto un regista che, come Terrence, quando ha finito di girare ha sempre la forza di aiutare la troupe. O portava una cassa del trucco, o portava una busta coi costumi, o portava qualche attrezzo degli elettricisti: l’ho visto sempre collaborare perché la sua filosofia di set è quella di stare come in una grande famiglia. Il suo modo di girare poi è entusiasmante, e mi ha dato moltissimo: usa obiettivi e delle tipologie di inquadrature veramente al di fuori della normalità, per creare delle immagini davvero senza pari.

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