Cattiverie a domicilio recensione film di Thea Sharrock con Olivia Colman, Jessie Buckley, Anjana Vasan e Timothy Spall
Cos’ha rappresentato il novecento per le società occidentali? Di certo non basta una recensione di qualche centinaia di parole per raccontarlo, ma un frizzante e salace lungometraggio di cento minuti (durata piacevole e rara all’interno un panorama cinematografico sempre più preoccupato di intasare le serate agli spettatori con film prolissi) potrebbe aiutare in tal senso.
Se a questo ambizioso obiettivo si aggiunge anche la presenza di numerosi spunti di riflessione disseminati per l’intera durata del film, ecco che risulta a dir poco complesso uscire annoiati dalla proiezione
In Cattiverie a domicilio Thea Sharrock si serve di un cast di prim’ordine per mettere in scena una di quelle vicende realmente accadute che quando raccontate generano immediatamente il commento: “Bisognerebbe farci un film”. La regista mette in scena l’accaduto evitando di porre l’accento soltanto sull’accattivante componente comica contenuta nel fatto in sé, ma scegliendo di scavare a fondo, al fine di confezionare un’opera in grado di contenere qualcosa in più di un divertente fatto di cronaca.
La storia che state per vedere è più vera di quanto si pensi.
(Cattiverie a domicilio)
Cattiverie a domicilio è ispirato ad una storia realmente accaduta a Littlehampton nel 1922 quando una serie di lettere anonime, dal contenuto inaccettabile per la sensibilità dell’epoca, vennero recapitate ad alcune cittadine. Lo scompiglio a cui qualche goccia di inchiostro su carta diede origine, come ben rappresentato nella pellicola, fu anche oggetto di particolari attenzioni da parte della stampa locale, grazie alla quale un fenomeno di anonimia si trasformò nel giro di poco in un vero e proprio caso nazionale.
Ma in che modo tutto ciò diviene un raffinato riflesso audiovisivo delle storture socio-politiche dello scorso secolo? In questo caso regia, scrittura, dialoghi e interpretazione fanno gran parte del lavoro permettendo ai temi apparentemente celati di affiorare dal tessuto tragicomico della vicenda.
Sul piano squisitamente drammaturgico, le lettere divengono fulgido simbolo di una particolare via di uscita dalla repressione esercitata dal sistema patriarcale, solito nascondere sotto al tappeto frustrazioni e idiosincrasie tipiche della famiglia tradizionale.
Aver centellinato con saggezza l’impiego del caratteristico humor anglosassone pone una gustosa ciliegina in cima ad una torta tanto zuccherata e leggera all’esterno, quanto stratificata e articolata una volta tagliata a metà. Tuttavia il registro espressivo del film rimane rigorosamente accessibile dal primo all’ultimo istante, anche e soprattutto a causa di una messa in scena e dei dialoghi votati costantemente ad un’amara risata, utile a filtrare ogni sviluppo narrativo attraverso il peculiare cinismo britannico.
Ciò che delude è lo svolgimento dell’atto finale, sin troppo frettoloso e intimorito da un eventuale smarrimento del cosiddetto spettatore medio. È così che Colman e Buckley convivono sullo schermo all’interno di un prodotto cangiante, in grado di mostrare con grazia la gran quantità di nature eterogenee contenute, ma eccessivamente impegnato a rientrare in quel rassicurante e proficuo terreno tanto caro al pubblico mainstream. Difatti, se è probabile che le fasce meno avvezze a prodotti impegnati avrebbero in parte sofferto un finale meno rassicurante, è altrettanto evidente come il lungometraggio della Sharrock ne avrebbe guadagnato in termini di credibilità.