Cherry – Innocenza perduta recensione del film di Anthony e Joe Russo con Tom Holland, Ciara Bravo, Jack Reynor, Michael Rispoli e Michael Gandolfini
Pop the cherry è un’espressione dialettale che fa riferimento alla perdita della verginità in seguito alla rottura dell’imene. Chi mastica un minimo di slang per via dei milioni di film e serie tv americane consumate senza pietà lo avrà sentito ripetere spesso, ma Anthony e Joe Russo hanno deciso di ampliare il senso della metafora e costruirci sopra un film più profondo con un personaggio omonimo.
Nel viaggio all’esterno della bolla cinecomic, l’attore feticcio che fa da garante della transizione è l’amichevole Spider-Man di quartiere Tom Holland, sempre più alla ricerca di ruoli che gli consentano di uscire dalla comfort zone Marvel.
Nello specifico l’attore britannico è un adolescente americano che per far fronte ad una cocente delusione d’amore decide di arruolarsi nell’esercito ed abbracciare poi, una volta tornato a casa, il tremendo mondo del disturbo da stress post-traumatico (PTSD) con tanto di droghe, furti e amarezze varie.
I registi di Avengers: Endgame e Community non sono partiti da zero, hanno opzionato per un milione di dollari il romanzo di Nico Walker e affidato la sceneggiatura a Jessica Goldberg e Angela Russo-Otstot prima di concentrarsi sui propri esercizi di stile. In uno strano mix di Una pazza giornata di vacanza e Full Metal Jacket, la narrazione della storia di Cherry e del suo mondo malato è un lungo ricorso a inquadrature ammiccanti, color grading spinto e fuochi d’artificio visivi per distogliere lo spettatore da una storia che al cinema non smette di essere riproposta. (Ironia della sorte o ferro caldissimo da battere, nel 2009 Tobey Maguire, altro ragno della Marvel, è il protagonista di Brothers, altro film con lo stesso background).
Questo è solo uno dei problemi di Cherry. Il faccione pulito di Tom Holland che progressivamente si consuma non riesce a raccontare fino in fondo l’inferno che il suo personaggio deve attraversare. E’ un illusionista a cui per sbaglio sfugge il coniglio dal doppio fondo del cilindro. Sta recitando e nulla di ciò che gli è intorno lo aiuta a mascherare il suo impegno, prigioniero di una storia serva del suo impianto visivo. La scansione in quadri con cui servire allo spettatore la storia non è contingente, è una ruffianata utile per darsi un tono e passare alla svelta alla questione successiva da esplorare.
L’uomo che perde l’innocenza davanti agli orrori della guerra ed è costretto poi a ravanare nella miseria è una metafora che può anche risultare arguta nell’immediato, ma può essere l’unico sottotesto di un film lungo due ore? Non basta un volto riconoscibile in tutto il mondo, non basta riporre le speranze nelle nequizie della guerra, non basta rompere la quarta parete perché il frutto, piacevolmente rosso all’interno, dentro è ancora estremamente acerbo.