Control recensione film di Anton Corbijn edizione restaurata 4K con Sam Riley, Samantha Morton, Alexandra Maria Lara, Craig Parkinson, Joe Anderson, Toby Kebbell e James Pearson
Dopo Caravaggio, Dead Man, Crash, i tre restauri di cui vi abbiamo già scritto e che dal 16 luglio sono nelle sale italiane grazie a Movies Inspired, ci occupiamo adesso di Control, il biopic di Anton Corbijn, che nel 2007 spopolava nel buio delle sale cinematografiche come trasposizione sul grande schermo del romanzo, scritto da Deborah Curtis, dal titolo Touching from a Distance, un memorial di quella che è stata la vita di suo marito Ian Curtis e della genesi e inevitabile fine della sua band inglese: i Joy Division.
Una vita, quella di Curtis, destinata forse a durare per chissà quanto tempo, se solo non avesse deciso di stroncarla, ormai 40 anni fa, optando per uno degli errori più gravi che l’essere umano possa commettere, decidere di non esporsi e quindi ricercare l’aiuto altrui, interiorizzando tutto e raggiungendo il limite che porta al gesto estremo ultimo – per Ian la scelta ricadde nel mettersi una fune al collo dopo una notte passata a vedere La ballata di Stroszek (1977) di Werner Herzog e ad ascoltare per l’ultima volta l’album di debutto di Iggy Pop, The Idiots. Il suo è uno di quei casi di suicidio dove il movente principale appare abbastanza chiaro. Cosa lo portò, dunque, a commettere quel gesto ben due volte, prima provandoci e poi riuscendo nell’intento?
1973, Macclesfield (Manchester), Ian Curtis ha 17 anni, legge William S. Burroughs e James Graham Ballard, autori sperimentali e provocatori, romanzieri postmoderni.
Il primo proviene dalla corrente della Beat Generation, abusa di droghe, racconta visioni inquietanti dal forte umorismo nero, esperienze autobiografiche trasgressive ed estreme, crea opere d’avanguardia come La Scimmia sulla schiena e il surreale Il pasto nudo, portato sul grande schermo dal genio di David Cronenberg nel 1991. Il secondo opta per scenari distopici e perversioni umane ambientate nell’era della tecnologia moderna, un importantissimo rappresentante del cyberpunk e un possibile precursore dello slipstream:
genere fantastico dove le convenzioni di un genere sconfinano nelle regole di un altro – ne sono esempi cinematografici film come Memento, Essere John Malkovich, Fuori orario, Crash e il già citato Il pasto nudo.
Ian impazzisce per la musica dei Velvet Underground e David Bowie; sono sonorità quelle che sente provenire dai loro vinili, in grado di scuotergli le corde più profonde tanto da fargli venir voglia di metter su, a sua volta, una band e sfondare nel mondo della musica.
Debbie è appena entrata a far parte della sua vita, così, all’improvviso, e giusto tre anni dopo la coppia di fidanzatini indossa le fedi nuziali, e di lì a poco il ventre di Debbie inizia a cresce ed ospitare la piccola Natalie, che oggi fa la fotografa e ha il privilegio di avere gli occhi del padre, così chiari, profondi e tormentati.
Vedere i Sex Pistols dal vivo è cruciale per la compagnia di amici di Curtis, talmente decisivo da volerla fondare la band di cui fantasticavano tra di loro.
La carriera musicale inizia dunque a delinearsi e una volta fondati i Warsaw, arrivano anche le prime possibilità di esibirsi davanti ad un piccolo pubblico.
I fan del leggendario Duca Bianco avranno già individuato la citazione: Warszawa, il pezzo strumentale di David Bowie contenuto nell’album del 1977, Low.
Nel dicembre dello stesso anno viene inciso il primo EP, An Ideal for Living, ma il successo è ben lontano, e quel minimo che si può guadagnare non basta mica a mantenere la famiglia; per compensare Ian fa anche l’addetto in un ufficio di collocamento dove incontra qualsiasi tipo di personalità si potesse trovare in giro ai tempi.
Un giorno una ragazza ha una crisi epilettica durante un colloquio, si accascia a terra e si contorce davanti ai suoi occhi – è un momento fondamentale nella sua vita, ha infatti l’ispirazione fulminea di scriverci una canzone al riguardo, quella che sarà la prima grande canzone dei Joy Division, la celebre She’s Lost Control (introdotta poi nel gennaio 1979).
I Joy Division, sì, difatti la band nel gennaio del 1978 ha cambiato nome, preso dal romanzo del 1955 The House of Dolls di Ka-Tzetnik 135633 (Yehiel De-Nur), e che designava le donne ebree che nei lager, durante la seconda guerra mondiale, venivano usate per l’intrattenimento sessuale dei soldati nazisti; è un nome decisamente più iconico e utile a non creare confusione con un’altra band inglese, i Warsaw Pakt.
Nel maggio del 1978, la casa discografica RCA offre la possibilità alla band di incidere un disco nell’Arrow Studios, con il produttore John Anderson, ma l’insoddisfazione generale porta i quattro a mollare il progetto e i brani di quella session verranno pubblicati postumi solo nel 1994.
L’esibizione al Rafters Club di Manchester è fondamentale per essere notati dal mitico Tony Wilson, il conduttore televisivo che portava nelle case degli inglesi gli ultimi aggiornamenti e successi musicali della zona; nasce un alterco violento tra Curtis e Wilson e nel settembre dello stesso anno vengono ospitati per una live durante il Granada Reports Show – la bomba del nuovo post-punk inglese è appena esplosa.
Wilson è anche a capo della Factory Records e li convince a partecipare alla compilation promozionale A Factory Sample, prodotta per il lancio della label, con due loro brani: Digital e Glass.
Sono brani fondamentali per le future collaborazioni che porteranno ai leggendari album: Unknown Pleasures e Closer, entrambi costituiti da un suono profondo e introspettivo, scandito dai tamburi di Morris e dall’incedere costante e ritmico del basso di Hook, con la chitarra solista di Sumner che influenzerà l’intero panorama new wave a seguire.
In tutto ciò, i membri della band hanno un’età che si aggira attorno ai 21-22 anni, e l’unico ad essere sposato è Ian, il più debole di tutti, il più fragile, il più bisognoso di affetto e aiuto; ma sono gli anni della giovinezza, nessuno si rende veramente conto di cosa stia iniziando a balenare nella sua mente.
Il leader ha infatti appena conosciuto una nuova ragazza durante un concerto: Annik Honoré, l’improvvisata giornalista belga, personaggio chiave per creare il triangolo amoroso fatale che porterà Ian a sentirsi sempre più in colpa nei confronti della propria famiglia e di se stesso.
Come se non bastasse arrivano anche i primi attacchi di epilessia, uno proprio durante un concerto e il secondo mentre Morris sta conducendo l’auto, prontamente fermata a bordo strada per non rischiare un incidente stradale – Ian ha infatti iniziato a dare pugni ai suoi compagni e le convulsioni sembrano quasi farlo levitare dal sedile del passeggero, quasi come fosse posseduto da una forza demoniaca.
Da quel momento inizia a prendere pillole su pillole, parla con Annik e le dice di rinunciare alla loro storia d’amore, promette a Debbie di starle accanto, ma la sua fragilità e i suoi fantasmi interiori lo portano a commettere un errore dopo l’altro.
Ormai non si riconosce più, è diventato paranoico, taciturno, completamente avvolto nella nube dei propri pensieri, apatico e depresso.
Il 6 aprile 1980 tenta il suicidio da overdose di farmaci – lo salva una lavanda gastrica.
Ma il 18 maggio dello stesso anno, dopo l’ultima tremenda crisi epilettica, mentre è solo in casa di Debbie, da cui si è ormai separato e la quale vuole da lui il divorzio, distrutto e senza ormai nessuna speranza decide di farla finita.
Tutto ciò ad un giorno dall’inizio della tournée negli Stati Uniti.
A questo punto, nel documentario del 2007 di Grant Gee, Joy Division, che abbiamo visto poco prima di vedere Control, Peter Hook racconta di aver ricevuto la notizia con una telefonata, di essersi seduto a tavola come se nulla fosse e aver vissuto tranquillamente il resto della giornata; aveva poco più di vent’anni, era di una ingenuità paradossale, tanto da portarlo a rinunciare all’ultimo saluto prima della chiusura della bara – momenti che oggi ricorda con grande rammarico e profondo senso di colpa.
Il resto della band, proprio come nel film, passava il resto delle giornate nei bar a tracannare alcol e riflettere sull’accaduto, che nonostante tutto è la stessa tragedia che gli ha portato poi la leggendaria fama postuma, non solo come membri dei Joy Division, ma soprattutto per la creazione della band New Order, fondata nel 1980 e che segnò il sound degli anni ’80 e ’90 in maniera ancora più decisiva.
Un ennesimo cambio di nome allora?
No, è la nascita di una nuova band, che della vecchia conserva solo i tre membri originali e che si discosta da quelle sonorità che erano frutto della creatività di Curtis, il poeta del post-punk che sacrificava sempre qualcosa di suo per il pubblico nonostante le “scosse elettriche” e la sofferenza che provava sul palco, quel gran lettore di romanzi sulla sofferenza umana, quell’anima in pena che fu il simbolo dell’effervescenza della vita, nella prima metà degli anni ’70, e del peso delle aspettative nella seconda metà della decade.
Corbijn crea un film che in parte si discosta dalla realtà dei fatti, i quali non è stato semplice verificare per mancanza di fonti, ma che a grandi linee segue in modo più che valido e funzionale quella che è stata la storia della band di Manchester, prendendosi ogni tanto qualche libertà poetica anche in favore di un adattamento più romanzato ed affine ai gusti del grande pubblico.
Opta per il suo tratto distintivo, il bianco e nero che l’ha reso celebre per le foto che egli stesso fece alla band negli anni ’70 e che poi è stato il “colore” di fondo di alcuni dei video musicali degli U2 che negli anni ’90 furono girati proprio da lui (One, Please, Pride, Electrical Storm).
Oltre 60 i video musicali da lui firmati, per artisti come i Coldplay (Viva la Vida e Talk), Depeche Mode (Personal Jesus e Enjoy the Silence, i più famosi), New Order, Red Hot Chili Peppers, Joni Mitchell, Metallica, Naomi Campbell, The Killers (All These Things That I’ve Done), Nick Cave e i Nirvana – suo infatti il video del brano Heart Shaped Box, che gli fa vincere il MTV Video Music Award nel 1994.
Nei suoi film dunque, così come nelle sue foto, ritroviamo i potenti contrasti dei colori o del nero sul bianco, come in questo caso, componente che nella sua produzione fotografica appare spesso sfocata, ma che nel film in questione è invece perfettamente a fuoco portando ogni sequenza ad essere priva di una qualsiasi sfocatura di sfondo, con i personaggi perfettamente aderenti all’ambiente che li circonda e che li descrive.
Le due ore di girato si dimostrano coerenti e introspettive e consacrano la pellicola a livello narrativo come uno dei migliori biopic musicali degli ultimi vent’anni, con il cast che suona dal vivo e un Sam Riley quasi perfettamente calato nella parte, se non fosse per quell’aura di tristezza che sembra fermarsi lì, senza riuscire a rendere al 100% la fanciullezza del volto di Curtis, la laconicità e la chiusura del secondo periodo della sua vita, dove la malattia mentale era individuabile soprattutto attraverso i suoi occhi, così glaciali, tenebrosi e malinconici, che nel caso dell’attore sono invece scuri – pensare che la scelta di usare delle lenti a contatto non sia stata sfruttata, lascia l’amaro in bocca.
Un film da riscoprire e vedere in sala, un’occasione imperdibile per avvicinarsi alla corrente new wave del post-punk del periodo, che riesce a creare sonorità profondamente introspettive e nostalgiche anche a distanza di più di 40 anni.