Cosa resta della rivoluzione recensione film di e con Judith Davis, Malik Zidi, Claire Dumas, Simon Bakhouche, Mélanie Bestel e Nadir Legrand
In un’epoca in cui la politica, nella sua accezione più alta, sembra ormai tramontata e la società rincorre modelli che poco hanno a che fare con i valori (e i disvalori) di quel tempo, Cosa resta della rivoluzione irrompe con il suo immaginario nostalgico. A più di 50 anni di distanza da uno dei momenti cardine della storia, quel Sessantotto che aveva portato con sé la speranza di un cambiamento dell’ideologia all’insegna dell’uguaglianza, Judith Davis passa per la prima volta dietro la macchina da presa e si interroga sui risultati, oggi, del movimento.
Sempre in bilico tra commedia e melodramma familiare, Cosa resta della rivoluzione fa della discontinuità uno dei suoi elementi contraddistintivi. Messa da parte la narrazione lineare, il film procede attraverso una rappresentazione episodica degli avvenimenti che si presentano nella vita di Angèle, giovane urbanista che prova a mantenere fede a quegli ideali che gli sono stati tramandati dal padre Simon, in passato convinto maoista, e dalla madre Diane, che si è ritirata in campagna abbandonando la famiglia e la “lotta”. La quotidianità della protagonista è fatta di scontri: con chi la licenzia perché è semplicemente “nata nell’epoca sbagliata”, con la sorella e il cognato che hanno abbracciato un’esistenza al servizio del Capitalismo e, più in generale, con la società stessa, espressione della sconfitta della Rivoluzione.
Judith Davis sceglie sempre di far prevalere le domande rispetto alle risposte, mettendo in scena una serie di sketch, più o meno riusciti, che riescono a entrare nelle pieghe della nostra realtà. Quello che le interessa, infatti, è il racconto di uno scarto generazionale, la situazione di precarietà in cui si trovano i giovani di oggi che è forse dovuta agli errori di chi li ha preceduti. Non a caso, centrale all’interno della narrazione risulta proprio il rapporto madre-figlia, improntato su quel senso di abbandono che può essere letto in chiave più ampia anche come prodotto di una sconfitta sociale.
Ma allora che cosa resta realmente della rivoluzione? Pur procedendo all’insegna della malinconia, della nostalgia e dell’amarezza, il film trova una sintesi che fa guardare con ottimismo al futuro nella possibilità di influire realmente sulla realtà anche attraverso i piccoli cambiamenti, quelli più intimi. Abbandonati per strada gli ideali macro del Sessantotto, la vera rivoluzione passa attraverso la realizzazione di se stessi, magari all’interno di un contesto di coppia.
Tutto questo è sufficiente? Una risposta il film sceglie di non darla, mantenendo un approccio molto più naif rispetto a quanto ci si attenderebbe dal titolo. Judith Davis, però, riesce a non rimanere prigioniera delle trappole del cinema a tesi, a non tendere al manifesto filosofico fine a se stesso. Il suo è semplicemente il racconto di chi, schiacciato dal peso del passato, prova a ricostruire la propria vita senza cambiarla radicalmente.
Cosa resta della rivoluzione evidenzia da un lato il crollo dell’utopia sociale in senso collettivo e dell’altro l’importanza di ripartire dalla famiglia. Un concetto chiave che passa attraverso una messa in scena che tende in alcuni momenti alla semplificazione narrativa (soprattutto quando rappresenta le riunioni di gruppo, all’insegna della caricatura). È un film di alti e bassi che ha il coraggio, tuttavia, di lasciarci in sospeso, di invitarci a riflettere. Non male per un’opera prima.